La storia di Giulia
Dopo un anno e mezzo dalla sua nascita mi sono deciso a scrivere la storia di Giulia nostra seconda Figlia.
Il concepimento
Come spesso succede in questi casi, nella coppia, è la femmina che prende l’iniziativa.
Mia moglie un bel giorno decise che venne il momento di dare un seguito al primogenito.
Poi a casa si passa dalle giornate a “non farlo mai” alle giornate del “facciamolo di continuo”.
Il maschio, prima si trova ad implorare di avere un rapporto sessuale, quasi sempre negato, per poi passare ad implorare dei momenti di giusto riposo, ma sempre di implorare si tratta.
Per chi non è pratico, la vita dello stallone non è delle più semplici.
Come avvenne con il ns. primo figlio GIACOMO, anche per il secondo mia moglie ha utilizzato la stessa metodologia che illustro.
Il primo mese, si richiede un’attività blanda, in pratica si fa quando si riesce.
Il secondo mese già si richiede un martellamento più assiduo.
Il terzo mese si passa all’applicazione scientifica della ricerca del periodo più fertile, e iniziano ad insorgere dei primi insulti verso lo stallone tacciato di poco rendimento.
Poi per fortuna l’obbiettivo è raggiunto e si ritornerà beatamente alla classica vita famigliare del “non farlo mai”.
Quando siamo certi che mia moglie è incinta siamo intorno a 8 dicembre del 2004, giorno del mio quarantesimo compleanno.
Facciamo le stesse cose del primo figlio.
Ci rivolgiamo allo stesso Ginecologo che opera all’ospedale di Carate Brianza, che già ci avvisa che è ancora troppo presto per averne la certezza e ci da appuntamento per le 20 di sera della vigilia di Natale.
Premetto che mia moglie era già in apprensione, perché, a causa della presenza di cisti non proprio sotto controllo, pensava di pregiudicare tutta la faccenda.
Il giorno 24, il dottore ci confermò che il concepimento fu raggiunto e ci diede appuntamento per le solite visite ed esami di rito da effettuare nei mesi successivi.
Ecografia della 20° settimana
Arriviamo al primo momento infelice, dove alla classica prima Ecografica, lo stesso dottore che la fece 4 anni prima, ci comunica la prima notizia negativa:
Ernia Diaframmatica
Premetto che la diagnosi la diede alla fine di tutta la visita ecografica che durò circa una mezz’ora.
Infatti, come prima notizia ci comunicò il sesso:
una femmina
Non ne avevamo discusso più di tanto (infatti mia moglie mi accusa che con me non riesce proprio a discutere), ma devo ammettere che speravo fosse proprio una femmina e l’emozione mi colse con uno certo stupore alla comunicazione del sesso.
Ma, subito dopo, il dottore manifestò dei segnali di preoccupazione, che noi onestamente non riuscimmo a decifrare chiaramente.
Ci comunicò che il feto era affetto da Ernia Diafframmatica senza classificarla in modo preciso, ma salutandoci con l’affermazione:
portatela avanti con relativa tranquillità
Quindi uscimmo dall’ospedale con una sensazione di contentezza per il fatto che fosse femmina mista a delusione per la diagnosi di ernia.
Io come ernia conoscevo solo le forme di ernia al disco o giù di li che vengono comunemente affrontate, ma non capivo come era possibile che già al 4° mese si evidenziasse una cosa del genere in un feto così piccolo.
Poi dato che menzionò la possibilità di un intervento chirurgico, pensai ai banali interventi di ernia.
Comuque ci avvisarono che per approfondire la situazione ci avrebbero chiamato a breve per un’ecografia di secondo livello con un altro dottore.
Dopo 2 o 3 giorni ci contattarono per l’ecografica di secondo livello, e poiché non eravamo particolarmente in allarme, si recò esclusivamente mia moglie alla visita, risparmiandomi il viaggio di rientro da Milano mia sede di lavoro.
Questo fu un errore, rimarcato dallo stesso dottore, perché in quella sede comunicò a mia moglie tutto ciò che di negativo sarebbe potuto succedere alla bambina che portava in grembo.
In pratica si passò da una versione addolcita e confusa del primo incontro ad una versione catastrofica enunciata dal secondo dottore.
A proposito della comunicazione, e da questo momento ne avremo di continue con i medici, devo evidenziare che spesso ci siamo trovati in difficoltà.
Ammetto che la problematica è complessa ed evidentemente non si ha la possibilità di fare un congresso specifico per ogni genitore sulle situazioni da affrontare, ma i vari approcci avuti con i dottori anche a volte totalmente contrastanti tra loro ci hanno spesso mandato in confusione.
Forse per la necessità di farsi comprendere nel tempo più veloce, poiché sono sempre presi da una moltitudine di attività, le comunicazioni a volte pervenivano come delle vere mazzate.
Infatti, un allarme dato al momento, se spiegato dettagliatamente può essere recepito nel giusto modo, ma se buttato li nel mentre, ti mette in una condizione di instabilità che può perdurare negli anni.
Ne parleremo poi con lo svolgersi della storia.
Mia moglie uscì dall’ecografia di secondo livello con una diagnosi terribile. La conferma di un’Ernia Diaframmatica. Una situazione rara quanto grave, che dava poche possibilità di sopravvivenza alla bambina.
Il dottore si limitò ad evidenziare tutto ciò che di negativo comportava la situazione e ci dirottò a controlli più specifici presso l’Ospedale Buzzi di Milano, perché in Brianza non erano predisposti per affrontare tali problematiche.
Ci fissò subito un incontro al “Buzzi” di li a breve.
La frase con cui ci lasciò il dottore fu:
“predisponetevi alla situazione più negativa da affrontare”.
Queste erano le possibilità:
La gravidanza probabilmente non arriverà a termine.
Ci potrebbero essere altri inconvenienti oltre all’Ernia.
Ospedale Buzzi
Arrivammo all’Ospedale Buzzi intorno alla 22° settimana, per effettuare tutte le diagnosi specifiche, e arrivammo già con tutte le negatività recepite in Brianza e con la consapevolezza di non portare a termine la gravidanza, pensando che non avremmo avuto alternative all’aborto.
Era la prima volta che entravamo al Buzzi, poi avremmo conosciuto ogni meandro dello stabile, infatti frequenteremo quasi tutti i piani sia dell’Ospedale che del reparto Ambulatoriale di Diagnostica, dal Parcheggio alla Mensa, dalla Cappellina alla Banca.
Al Buzzi ci recammo all’Ambulatorio Prenatale del Reparto Guaita (palazzo C).
Incontrammo una dottoressa che poi non avremmo più incontrato, infatti era anch’essa in cinta e in dirittura di arrivo del parto.
Subito abbiamo capito che eravamo in un ambito molto specializzato dove si era perfettamente a conoscenza delle problematiche che dovevamo affrontare, a cui aggiungemmo anche il positivo impatto estetico, derivante dallo stabile nuovo e perfettamente curato e la relativa organizzazione del Piano,e il tutto ci mise per lo meno nell’ottica che avremmo avuto chiarimenti sufficienti e definitivi.
Descrivo brevemente il colloquio avuto con la Dottoressa, che notò immediatamente la ns. rassegnazione.
Ci spiegò che sebbene la malattia fosse molto rara, al Buzzi ne conoscevano molto bene le caratteristiche e che non tutto era perduto a priori.
Ci spiegò molto chiaramente le caratteristiche principali del problema, anche se c’erano ancora moltissime cose da definire e, successivamente capimmo che molte cose non le avremo mai sapute finchè non sarebbero accadute ed ancora oggi viviamo nella speranza che non avvengano (ovviamente quelle negative).
Infatti, l’Ernia Diaframmatica si può presentare in moltissime forme, più o meno critiche, ed i problemi che si dovranno affrontare quando il bimbo nascerà, alla 22° settimana, sono assolutamente sconosciuti.
I miei pensieri prima dell’incontro erano rivolti all’imminente perdita della bimba e su come avrebbe potuto reagire mia moglie all’aborto, come l’avrebbe superato e, se successivamente poteva mai pensare alla possibilità di avere altri figli.
In pratica ero già orientato a come sarebbe stato possibile cancellare la situazione in corso.
Le informazioni che ci diedero furono:
Non tutti i bambini muoiono di ernia, anzi molti sopravvivono ed anche bene.
L’importante era da subito fare l’amniocentesi per verificare se ci fossero altri danni cromosomici e genetici in accompagnamento all’ernia, in modo da avere tutti i riferimenti possibili prima di decidere se proseguire o abortire.
Il problema era che i tempi erano ristretti, infatti, i risultati preliminari sarebbero stati disponibili solo dopo 10 gg, in tempo ancora per il limite della 24° settimana imposti per l’aborto, ma i risultati definitivi sarebbero andati oltre.
Comuque i dottori dissero che entro la data prevista avremmo avuto le informazioni necessarie e determinanti (al 90%) per affrontare una scelta che si potesse basare su dati reali, poi sappiamo che tutti gli esami possibili non bastano mai per dare una certezza definitiva.
Uscimmo con un nuovo appuntamento di li a 10 giorni.
Quindi passammo dallo stato di rassegnazione per una chiusura negativa della faccenda verso una situazione aperta a più scelte, scelte ovviamente tutte cariche di incertezze e portatrici di apprensioni al limite della tensione.
Si dice sempre che le cose finchè non accadono, non ci si pensa, ed è proprio così, una volta dentro, le situazioni si vivono molto più intensamente. Scegliere se portare avanti o meno una vita è una scelta importante non avendo la visione di ciò che possa accadere successivamente.
La Scelta
Dopo alcuni giorni ci comunicarono che i primi risultati escludevano altre patologie e nell’incontro prestabilito al Buzzi, anche se tutta la diagnostica non era ancora disponibile, ci confermarono che gli esami andavano bene.
Ormai era la 24° settimana e la decisione che prendemmo fu di proseguire.
Cominciammo già in quell’appuntamento ad approfondire la questione, e ci fu un colloquio con un altro dei dottori del reparto Prenatale.
Avremo modo di conoscerli tutti ed ognuno si relazionava nel modo che riteneva più idoneo all’occasione. Di tutti ricordiamo comunque un’estrema disponibilità e sempre la ns. sensazione era di avere di fronte delle persone estremamente competenti.
Era sempre un incontro preliminare e quindi non particolarmente approfondito.
Tutti ovviamente concordavano nel fatto che l’Ernia Diaframmatica era una cosa molto delicata e, certamente il fatto che per ns. figlia fosse congenita, la rendeva fra le più complesse.
Nei vari incontri successivi e durante il ricovero avremo modo di conoscere sempre più e nuovi (cosa che generava in genere molta preoccupazione) dettagli.
I primi risultati dissero che era un’Ernia Diaframmatica sinistra e anteriore.
Il dottore ci accolse così: la situazione è grave, ma non delle peggiori, dicendo che era una bella ernia (sottointendendo che non era una delle peggiori).
Infatti, era anteriore e visibile (alcune sono nascoste e non visibili fino al termine), poi era a sinistra quindi dalla parte dello stomaco (mentre dalla parte del fegato pare sia peggiore).
Poi disse, che essendo una femmina, c’erano più possibilità, perché superano meglio statisticamente le situazioni più difficili.
Durante il ricovero abbiamo conosciuto altri 3 casi come il nostro, guarda caso le 2 femmine rimasero ricoverate 3 mesi, mentre i 2 maschi uscirono nel giro di 3 settimane, smentendo la statistica, ma forse i dottori intendevano che ernie cosi complesse se affrontate da maschi la sopravvivenza è più critica (infatti i 2 maschietti che abbiamo conosciuto erano sostanzialmente sfiorati dall’ernia).
Il dottore quindi ci organizzò i successivi incontri, che iniziarono mensilmente per poi passare ad ogni 15 giorni.
Conoscemmo la caposala e le infermiere del reparto (tutte cortesi e disponibili oltre che sempre incasinatissime), e la caposala, solo successivamente, abbiamo saputo essere la moglie di un ns. ex portinaio di condominio, nonché abitante nella stessa casa di mio cugino.
Visite di Controllo
Dopo aver deciso di proseguire, cominciammo i fitti incontri di diagnostica, sempre al 2° piano del padiglione Guaita.
La prassi era sempre la stessa, ci si recava più o meno all’orario prefissato, si aspettava la solita oretta, poi si effettuava la visita e si prendeva appuntamento per la volta successiva.
Nelle attese si assisteva al via vai di persone, dottori, infermiere, pazienti, c’erano donne in cinta di tutti i tipi e molte di loro provenivano da fuori Milano e Lombardia.
Noi vivemmo le visite di controllo sempre con molta ansia, nella speranza che la situazione non peggiorasse.
Eravamo preoccupati che non si estendesse il problema al diaframma e che rimanesse limitato alla parte sinistra.
Devo ammettere che, sebbene abbiamo fatto molte visite ecografiche con i vari esperti, alcune anche con macchine tridimensionali, le informazioni ricevute non ci chiarivano esattamente cosa sarebbe potuto succedere al parto.
La situazione comunque non peggiorò in modo particolarmente critico, se non per l’aumento pericoloso del liquido amniotico che la bimba non era in grado di smaltire a sufficienza.
Si resero quindi necessarie 2 aspirazioni di liquido (con le stesse modalità della amniocentesi solo molto più durature) una addirittura di circa 1 ora, dove mia moglie dovette rimanere coricata con un ago gigante nella pancia con le infermiere che si alternavano ad aspirare con una pistola più liquido in eccesso possibile.
Un momento molto emozionante fu, quando utilizzarono la macchina tridimensionale per effettuare l’ecografia verso il settimo mese, dove fu possibile vedere sullo schermo già il viso di ns. figlia (ci diedero anche una foto), viso che pareva somigliare di molto al fratello maggiore.
Un dottore ci disse che dalla foto la bimba aveva le labbra da baciatrice.
Il mandato dei medici fu sempre quello di portare la gravidanza più avanti possibile in modo da permettere di avvicinarsi alla scadenza naturale prevista verso la metà di Agosto.
Verso la fine, ci fu l’incontro con i vari Primari per spiegarci e prepararci all’evento.
Sebbene, come detto, abbiamo fatto varie visite e colloqui interlocutori, a quello che successe nella realtà non arrivammo comunque preparati sufficientemente perché successero un sacco di avvenimenti che ci colsero alla sprovvista.
Forse sarà anche un comportamento normale per lo staff medico di non addentrarsi più di tanto nei particolari, e forse è la tipologia stessa della problematica che lascia innumerevoli possibilità a rendere complesso un possibile tracciato futuro.
Devo comunque ammettere che noi arrivammo al parto con un sacco di informazioni, mentre i ns. compagni di sventura provenienti da Palermo, ad esempio, arrivarono pensando ad un intervento quasi normale e assolutamente impreparati a ciò che effettivamente accadde.
L’incontro di preparazione all’intervento con i Primari di Chirurgia (Pansini) e di Terapia Neonatale Intensiva (Lista) ci tracciarono delle ipotesi che elenco brevemente.
La faremo nascere qualche giorno prima della scadenza (si fissò per 1 Agosto).
Prepareremo il gruppo di persone per l’evento, che in linea di massima prevederà il parto durante il giorno per avere la massima disponibilità delle persone (siamo anche in Agosto).
La bimba non sarà operata immediatamente, ma prima sarà stabilizzata con l’intervento del gruppo di rianimazione.
Ci spiegarono che diversamente dagli anni precedenti, molto era dedicato alla fase di rianimazione sia in preparazione dell’operazione, che dopo l’operazione stessa.
L’operazione ci venne descritta dal Chirurgo come una cosa quasi nella norma, si incide, si verifica la situazione, si riporta gli organi al loro posto e si ricuce il diaframma oppure se ciò non è possibile si inserisce una protesi (un patch) di goretex per toppare il tutto.
Poi si seguirà passo passo il tutto.
Quindi capimmo che la prima parte in Terapia Intensiva era fondamentale per il successo finale.
Il dott. Lista ci disse che sebbene lui stesso sarebbe stato in ferie, non ci sarebbe stato alcun problema perché erano sufficientemente strutturati e ci lasciò con questa bella frase:
sebbene ci siano delle criticità, con alte probabilità di mortalità, affrontiamo l’evento con fiducia e ci diede il 50 % delle probabilità di riuscita.
Fino a quel momento, comunque avevamo la sensazione di essere nelle mani migliori che potevamo auspicare per ns. figlia, visti i medici e le attrezzature della struttura ospedaliera.
Poi quando abbiamo dovuto vivere nella realtà le situazioni successive, qualche dubbio si insinuò.
La Nascita
Alla fine i dottori presero la decisione di far nascere ns. figlia il 1 Agosto 2005, ben 15 giorni prima della scadenza prevista, anche se sempre avevano affermato che era meglio arrivare più vicino possibile alla scadenza naturale.
Dai calcoli dell’ultima ecografica dissero che la bimba era di un peso di circa 3 chili e ritennero idoneo anticipare, anche se poi quando nacque il peso reale fu di 2,750 kg.
Inoltre sempre ci dissero, che l’ideale era affrontare il parto in modo naturale perché sarebbe stato meglio per la bimba, poi invece decidendo di anticipare era evidente (almeno per noi) che ci sarebbe stato un parto cesareo.
Per come si dovevano svolgere le operazioni d’intubamento e di assistenza con il personale preposto che era in attesa dell’evento, per noi era chiaro che il tutto doveva essere gestito tramite il cesareo, per non trascurare la particolarità della situazione da affrontare.
Poi mia moglie sempre aveva avvisato i medici che anche nel primo parto si intervenne con il cesareo a causa della ridotta dilatazione e che presumibilmente anche per questo secondo sarebbe stato lo stesso.
Ma i dottori ci sorpesero e come spesso capita, si intestardiscono tentando di applicare il loro credo anche di fronte all’evidenza.
Di prima mattina ci presentammo al pronto soccorso del Buzzi che ci accettarono e destinarono al reparto Ostetricia.
I 2 giorni seguenti al ricovero li vivemmo come un vero e proprio incubo.
Noi eravamo già in ansia per le incognite legate alla nascita e fummo trascinati negli eventi senza renderci conto delle situazioni, un po’ fidandoci dei medici e un po’ per ns. mancanza di tranquilllità.
Ci predisposero il letto 301 al terzo piano, poi ci chiamarono per la sala parto al primo piano dove iniziammo il percorso che doveva concludersi con la nascita.
La dottoressa che ci accolse, ci comunicò a sorpesa che intendeva procedere con un parto naturale, (15 giorni prima della scadenza !!), ci disse:
faremo una bella induzione al parto con un gel e aspettiamo che esca oggi oppure aspetteremo tranquillamente domani.
Tutto quello che di buono vedemmo al Padiglione Guaita durante la diagnostica, nel reparto di Ostetricia parve non esistere, sembrava effettivamente di essere in altro luogo.
La gentilezza del personale qui era di tutt’altra forma, se dobbiamo escludere qualche ragazza giovane e probabilmente in stage senza paga che si dimostrava accogliente.
Capivamo che il lavoro in ospedale non era fra più remunerati e che le mansioni svolte oltre che delicate comportano un dispendio elevato (quindi onore a chi lo svolge con passione al di là delle difficoltà che riscontra), ma anche in considerazione del ns. stato d’animo ci eravamo aspettati una situazione più rilassata rispetto a ciò che avremmo vissuto.
Inoltre, confrontavamo la precedente esperienza avuta con il primo parto all’Ospedale di Carate Brianza, dove ad esempio anche per il papà erano in vigore delle regole ferree.
Qui invece il reparto era praticamente aperto a tutti, a qualsiasi ora e senza particolari controlli.
Ci impressionò anche la possibilità di accesso alla sala parto sita al primo piano, dove era facile l’ingresso e ci si poteva tranquillamente aggirare nei corridoi a fianco di donne urlanti.
Clamoroso fu il caso di quando si presentarono alla reception della sala parto sita proprio in centro al piano, 2 extracomunitari tipo Pakistani, che belli conciati con borse e sacchetti appresso sono tranquillamente entrati fino alle infermiere lamentandosi che il comune non voleva anagrafare il figlio appena nato, sventolando un foglio di carta dove presumibilmente c’erano i dati rilasciati dall’Ospedale. Cortesemente furono dirottati all’ufficio anagrafe dell’ospedale. Devo ammettere, che a posteriori, successe anche a me la stessa cosa, infatti quando mi recai al comune per la dichiarazione di nascita, ci rendemmo conto allo sportello che sul foglio di rilascio dell’Ospedale erroneamente avevano dichiarato la nascita un mese prima.
Ritornando alla ns. situazione, come detto, facemmo le visite di rito nella mattinata e il programma era di iniziare il processo di induzione a partire da un orario particolare che era il più idoneo.
Attendemmo nella stanza la chiamata che arrivò con 2 ore di ritardo rispetto all’orario prestabilito (“tanto va bene lo stesso” fu il commento).
Il Gel fu siringato a mia moglie, con bruciore e fastidi aggiunti in omaggio a quelli che ognuno può ben comprendere fra quelli già di norma presenti durante un parto.
Ovviamente io ne ho solo avuta la percezione, ma dalle grida che provenivano all’interno della sala parto c’era da spaventarsi. In quella sede abbiamo sentito delle urla che mai avremmo potuto concepire (considerato che un parto lo avevano anche già affrontato).
Il Gel non ebbe il minimo effetto ed anche nella sessione serale, non ci fu alcun risultato, cosicchè ci rimandarono alla giornata successiva con noi preoccupati del fatto che in teoria ci doveva essere allertato un gruppo di persone in attesa dell’intervento, ma ci tranquillizzarono che nulla cambiava con la giornata successiva e che tutti erano a disposizione.
Il giorno dopo si ricominciò con le pratiche di induzione, altro Gel e altri monitoraggi.
Le contrazioni aumentavano, i dolori anche, ma la dilatazione era sempre nulla.
Putroppo la Ginecologa che ci seguiva era la stessa della giornata precedente e solo nel tardo pomeriggio ci rendemmo conto che la dottoressa stava combattendo una battaglia personale contro ogni sensata regola, ma giusto perché doveva far nascere la bimba senza cesareo.
Non abbiamo mai capito le motivazioni di tale persona all’ostinazione del perseguimento del parto naturale sottoponendo una donna ad un martoriamento inutile, un atteggiamento che avrei potuto comprendere se il dottore fosse stato un uomo, ma da una donna e per giunta madre che a sua volta ha partorito, a posteriori ci sembrò una cosa folle.
Infatti la lista fu:
trattamento di induzione ancora con il gel (bruciori e quant’altro),
monitoraggi e visite interne continue e richieste di consulti a tutti quelli che capitavano in stanza,
per finire con l’applicazione di elettrodi alla testa della bimba per stimolare e indurre chissà che cosa,
con dilatazioni a distanza di ora dell’ordine di millimetri quando erano necessarie una decina di centimetri per il parto naturale.
Noi eravamo talmente nel marasma che non riuscimmo a porre un freno a questo iter (anche perchè fra la stanchezza di 2 giorni e il pensiero a quello che poteva succedere e sempre ascoltando chi diceva che lo si faceva per il bene della bambina), fino a che arrivò in tarda serata il sostituto della dottoressa che dapprima, forse per non sconfessarla interamente attese anch’esso del tempo, ma alla fine prese la sensata decisione di procedere con il cesareo.
Gli avvenimenti successivi ci portarono presto a dimenticare dell’accaduto in sala parto, ma mia moglie nei 3 mesi che sostammo all’Ospedale non volle nemmeno per sbaglio incrociare la dottoressa che ci segui quei 2 giorni, perché gli veniva una innata voglia di strozzarla.
Quindi, verso le 20 il dottore si predispose per il cesareo, ma ebbe degli imprevisti che ritardarono l’intervento con mia moglie che ormai era allo stremo con dolori allucinanti e gratuiti, vista poi la scelta finale.
Il tutto aggravato dal cambio di turno fra le infermiere, composto da 4 garampane tutte presumibilmente con decenni di servizio presso l’ospedale e che avevano una disponibilità e una sensibilità che rasentava l’indisponenza.
Alla fine ci predisponiamo per l’intervento, e con grande sorpesa, mi è permesso vedere il tutto attraverso la vetrata che divide un corridoio antistante la sala operatoria e la sala dove mi trovo io.
Cosa che non mi sarei mai aspettato, visto che nel precedente ospedale (sempre con cesario) ciò era vietato.
Assisto alla preparazione di mia moglie all’intervento, con anestesia spinale e assisto anche all’operazione stessa. Una cosa veramente impressionante e a posteriori penso che avrei potuto allenarmi con i programmi di Sala Parto trasmessi su Sky.
Per me sono momenti di grande tensione, ho di fronte il dottore che opera, e mia moglie che mi manda degli sguardi e sorride. Le preoccupazioni sulle condizioni di mia figlia cominciano ad assalirmi perché oramai siamo vicini alla resa dei conti.
Praticamente passo tutto l’intervento a piangere e per molti giorni successivi il pianto mi coglierà di continuo.
Alle 22 del 2 Agosto 2005 nasce mia figlia GIULIA.
I primi istanti
E’ nata Giulia, con un cesareo alle 22 della sera, mentre fuori incombeva un temporale niente male.
Doveva essere un parto controllato e per di più durante la fase diurna per gestire al meglio gli interventi di assistenza, ed alla fine ecco che me la fanno uscire di notte, con temporale incluso.
Ci sarà il personale specializzato preposto? Se devono intervenire urgentemente, lo faranno di notte? E se va via la corrente per il temporale?
Queste erano le mie preoccupazioni imminenti ed io non ero tranquillo proprio per nulla.
Appena estratta la bimba, intervennero un gruppo di dottoresse e infermiere (circa 4 persone) per dare assistenza a Giulia. Di li a qualche minuto venne trasferita dalla sala parto al primo piano e trasportata al quinto piano in Terapia Intensiva del reparto Neonatale.
Durante quel piccolo tratto fino all’ascensore mi si diede l’opportunità di vederla e oltre a me la potè intravedere anche mio fratello che stava attendendo in sala d’aspetto.
Fu un trasferimento rapido e mentre entravano in ascensore mi dissero di recarmi più tardi presso il 5° piano.
Ovviamente io stavo piangendo.
Mia moglie intanto fu ricucita e parcheggiata fuori dalla sala parto, per circa 2 ore come da prassi dopo un cesareo.
Secondo le disposizioni ospedaliere, infatti doveva sostare in osservazione in prossimità della sala chirurgica, rimasi con lei fino a quando la lasciai per andare in terapia intensiva come da accordi.
Mia moglie mi disse che non potè vedere la bambina, perché doveva essere intubata e trasportata al più presto in terapia intensiva, mentre lei doveva essere ricucita.
Il dottore al momento della nascita disse che la bimba era nata con la camicia, infatti era tutta ricoperta da una peluria bianca, chiamata appunto camicia bianca, e disse che ciò era di buon auspicio.
Dopo parecchio tempo mi permisero di entrare in terapia intensiva, ma non potei vedere Giulia perché erano ancora in corso le operazioni di assistenza.
La mia presenza era richiesta esclusivamente per la compilazione dei moduli per i permessi al ricovero con relativi consensi.
La dottoressa e il chirurgo mi diedero alcune indicazioni di massima sulle successive evoluzioni. La bimba dapprima sarebbe stata intubata ed assistita in modo da normalizzare e stabilizzare la situazione, ed un eventuale intervento sarebbe avvenuto, se tutto proseguiva bene, solo nella giornata successiva.
Prima di uscire chiesi informazioni sulla situazione alla ricerca di buone notizie e mi dissero che tutto era sotto controllo, ma che ogni previsione sugli sviluppi futuri era prematura, concludendo con queste parole:
“ vede in questi casi di ernia congenita già rilevata alla prima ecografia morfologica, ogni valutazione viene effettuata dopo l’operazione, perché il reale stato del polmone si potrà verificare solo al momento, infatti se la compressione del polmone è già in atto prima della 20° settimana potrebbe essere anche in una situazione tanto critica da non essere possibile il ripristino delle sue normali funzionalità ”.
Ci rimasi di sasso, perché proprio non sapevamo che c’era anche la possibilità che non potesse essere proprio utilizzabile il polmone, e di questa evenienza non s’era mai parlato.
Al che io chiesi “ e se non fosse recuperabile “, la risposta fu “ in questo caso non ci sarebbero speranze ”.
Tornai da mia moglie, oramai ritornata in stanza 301,e la preoccupazione era molta e mi accingevo a trascorrere la notte sulla sedia a fianco di mia moglie nell’attesa degli eventi. Ma con sorpesa ciò mi fu vietato perché il regolamento impediva a chiunque di soffermarsi in camera durante la notte.
Dopo un timido tentativo di discussione e con il pensiero ad altre situazioni mi convinsi a rientrare a casa.
La stanza 301
Questo capitolo è dedicato alla permanenza di mia moglie nella stanza 301 sita al terzo piano, camera occupata dal 1 Agosto, giorno del ricovero fino a 5 giorni successivi al parto.
Come già detto il reparto di Ostetricia non è stato l’ambiente più accogliente dell’Ospedale, con le infermiere di stanza spesso poco disponibili (sempre ad eclusione delle giovani dottoresse e infermiere che fanno praticantato).
La caratteristica delle infermiere ordinarie che operano nei reparti di degenza è:
sono sempre in numero ridotto,
quando le cerchi non le trovi mai,
se le chiami con il campanello di solito arrivano incazzate,
più sono vecchie e più sono incazzate.
Ho già scritto che il reparto era un porto di mare, con gente che va e viene a qualsiasi orario, inoltre il 3° piano è anche meno agevole per la gestione dei bimbi, infatti la nursery è al piano di sotto e per le mamme era un continuo salire e scendere in ascensore con le cullette dei bimbi. Un ascensore frequentatissimo soprattutto in orario di visite. Era normale trovarsi in ascensore una culletta con un bimbo di 1 o 2 giorni tranquillamente insieme a visitatori di ogni razza e condizione, questo quando nel precedente ospedale il bimbo ricoverato poteva avere contatto esclusivamente con il padre e bardato di camice e mascherina.
Faccio un esempio, un cinese poteva arrivare dal suo paese di origine il giorno prima e il giorno successivo essere tranquillamente in ascensore con tuo figlio appena nato, dico cinese perchè l’Ospedale Buzzi è il riferimento naturale della comunità cinese residente nei dintorni. Infatti l’ospedale mette a disposizione anche dei traduttori per i cinesi.
In sequenza, durante la ns. permanenza nel letto a fianco, abbiamo incontrato dapprima una ragazza romena che aveva la particolarità di dormire nello stesso lettino con il bimbo appena nato (e anche questo ci lasciò perplesso), poi arrivò una ragazza italiana di Affori che partorì il giorno successivo un bimbo e dopo soli 2 giorni uscì con sollievo di mia moglie, perché mi disse che non aveva mai sentito persona umana russare come lei.
Infine arrivò una ragazza moldava che era in osservazione per problemi durante la gravidanza.
Una notte successe anche una cosa curiosa, verso la mezzanotte arrivò un’infermiera con una culletta con dentro un bimbo e la piazzò nella stanza, e mia moglie dovette litigarci prima di convincere la stessa che il bimbo non era il loro, visto che la ns. bambina era ricoverata in terapia intensiva,e la giovane moldava era solo al quinto mese di gravidanza.
Alla fine dei 5 giorni mia moglie non gradendo la permanenza in reparto Ostetricia, scelse di lasciare il reparto e di preferire fare la spola tra casa e terapia intensiva, sebbene gli proposero, visto il ricovero in ospedale della figlia, il prolungamento della degenza di un altro paio di giorni.
Terapia Intensiva Neonatale
La mattina successiva alla nascita, cominciammo a prendere conoscenza con quella che sarebbe stata la ns. seconda casa per il periodo in cui rimase ricoverata Giulia.
Il reparto era al quinto piano e i corridoi d’accesso erano delimitati con delle porte di ingresso aggiuntive che venivano aperte nella fascia oraria prevista dalle 9,00 alle 21,00.
Per entrare nel reparto vero e proprio, si doveva indossare dei camici verdi e soprattutto lavarsi attentamente le mani.
L’ambiente era decisamente confortante, se non per il fatto stesso di esserci ricoverati, ma sembrava di essere in un reparto scollegato dall’ospedale, infatti qui vigeva il silenzio rispetto all’affollamento sugli altri piani, e le infermiere erano in un numero più elevato, inoltre erano visibili pure i dottori, esseri in via di estinzione presso gli altri reparti.
Eravamo quindi fiduciosi, sia per le considerazioni fatte sopra sulla struttura che per le persone che lavoravano alla Terapia Intensiva Neonatale, anche se per le prime settimane, come ci disse, il primario non era presente ma in ferie.
Poiché mia moglie era impossibilità a muoversi,la mattina successiva al cesareo, toccò a me andare in solitaria a vedere per la prima volta Giulia su al quinto piano. Affrontare ciò da solo mi metteva ancora più agitazione.
Il reparto all’interno era così strutturato:
all’ingresso vi erano 3 locali molto ampi che fungevano da nido, locali che davano visione direttamente sui corridoi attorno, dove i parenti e amici potevano vedere i bimbi, dato che l’ingresso era esclusivo per i genitori,
poi,più avanti c’era un locale grande, destinato alla terapia intensiva vera e propria con le postazioni messe in verticale una dietro l’altra ed in genere occupate da incubatrici per bimbi prematuri, locale di cui veniva data parziale visione sul corridoio tramite opportune tende,
ed in fondo come ultimo locale, un spazio più ristretto destinato in genere ad una sola postazione, inibito completamente alla vista esterna, dove non abbiamo mai capito se era il posto destinato alle situazione più complesse, tant’è vero che ns. figlia era proprio in quest’ultimo stanzino.
Sebbene già mi aspettassi una visione non delle migliori, l’effetto fu devastante, infatti Giulia era in una culletta speciale, distesa supina, intubata in un modo particolare che descriverò successivamente e con 10 macchinari collegati.
Chiesi ai dottori come fosse la situazione, e mi dissero che la bambina era in una condizione stabile, una condizione indonea in previsione dell’operazione che infatti era già in fase di preparazione. Mi dissero che fin dal primo momento della presa in carico e successivo intubamento non si erano avute particolari criticità, e il fatto che si fosse immediatamente stabilizzata e mantenesse tale condizione, doveva essere visto come un fatto molto positivo.
Ora non rimaneva che aspettare l’operazione per fare gli accertamenti necessari e sperare che le condizioni degli organi fossero nella condizione idonea per cominciare il duro percorso verso la guarigione.
Firmai tutte le carte necessarie all’operazione,operazione che si svolse intorno alle ore 13.
Ci dissero di attendere l’esito nella ns.stanza, e che ci avrebbero avvisato.
Tornai a questo punto da mia moglie riferendogli ciò che avevo visto e sentito attendendo l’esito dell’operazione.
L’Operazione Chirurgica
L’attesa nella stanza era snervante, ed io ero timoroso nello spostarmi su al quinto piano, per la paura di ricevere delle brutte notizie da solo.
L’operazione si sarebbe svolta direttamente presso il reparto di terapia intensiva neonatale, poichè diversamente da qualsiasi altro intervento, che in ospedale in genere viene affrontato nell’apposita sala chirurgica, questi bimbi vengono operati direttamente nella propria culletta, vista l’impossibilità di movimento data dalle macchine a cui sono collegati, macchine che soprattutto nelle prime ore di vita è sconsigliabile modificarne la configurazione.
Come già ci dissero,le problematiche inerenti all’Ernia Diaframmatica, venivano gestite con metodologie innovative rispetto a qualche anno addietro, metodologie condivise con le esperienze provenienti da tutto il mondo occidentale (anche se applicate ad ognuno con particolari variazioni), e probabilmente queste portavano a far pendere la bilancia più dalla parte dei bimbi salvati rispetto a quelli che non ce la facevano (ovviamente mi riferisco ai casi più complessi come poteva essere il nostro).
Comunque, dopo un paio di ore di attesa mi convinsi ad andare alla ricerca di informazioni, e mentre mi recavo al quinto piano, incontrai proprio il chirurgo che aveva effettuato l’operazione (era il primario che già incontrammo per l’incontro preparatorio alla nascita).
In questi casi, come primo riferimento si guarda l’espressione del volto e le prime parole che il dottore proferisce per intuire già come sono andate le cose, perché ovviamente io non avevo il coraggio di chiedere proprio nulla.
Il dottore era parecchio provato, ma il volto era disteso e quindi chiesi come era andata, la risposta fu che era andata bene, lui era personalmente soddisfatto e che stava proprio venendo da noi per relazionarci sui particolari dell’operazione.
Entrati nella stanza ci spiegò alcuni dei dettagli (altri non li sapremo mai) di come si svolse l’operazione.
Ci disse che la situazione si prospettò da subito molto complessa, notarono che praticamente tutto il diaframma di sinistra era inesistente, si era sfilacciato completamente generando un erniamento di tutti gli organi verso l’alto.
Il dottore era molto provato, perché, oltre alla lunghezza stessa dell’operazione, dovette affrontare l’intervento direttamente al reparto, senza usufruire della situazione climatica della sala chirurgica (che per chi ha la fortuna di non esserci mai entrato, sappiate che la sala chirurgica rimane a delle temperature veramente basse).
Ci descrisse che si dovette quindi recuperare tutti gli organi risaliti come ovviamente lo stomaco, ma anche l’intestino e la milza, e che furono riallocati nella loro sede naturale.
Poi si dovette provvedere alla chiusura del diaframma, che non potendo essere ricucito quello naturale dovette essere sostituito da una pezza di goretex.
L’affrancamento di detta pezza non fu delle più semplici, infatti se per la parte più esterna il dottore potè tranquillamente agganciarsi alle costole, per la parte più centrale disse che aveva dovuto fare particolare attenzione per non andare ad intralciare l’aorta perché altrimenti ci sarebbero state delle grosse complicazioni.
Preferì quindi un affrancamento più leggero da quella parte.
Ovviamente alle ns. domande sul fatto che la pezza potesse resistere per sempre e che non si dovesse più intervenire il dottore si dimostrò fiducioso, anche se non poteva garantirlo (cosa che poi purtroppo si verificò).
Ci confermò comuque la sua piena soddisfazione soprattutto in base alle difficoltà riscontrate, e la sua gentilezza nel comunicarcele ci mise in un ottica speranzosa.
Il problema è che il chiururgo si era limitato a risolvere i problemi di carrozzeria, sanando le malfunzioni fisiche riscontrate e rimettendole nella configurazione più idonea, ma per il motore e tutte le sue componenti da fare funzionare al meglio la palla veniva ripassata ai rianimatori ed alla terapia intensiva che dovevano lavorare con il materiale a disposizione.
A me personalmente sorpese sentire il dottore raccontare tutte le cose che fece con quelle mani grosse su un corpicino piccolo come quello di una bimba di 2,750 kg e le difficoltà che dovevano essere state trattate, anche se a suo tempo ci descrissero queste operazioni ormai come operazioni di normale svolgimento.
Nel pomeriggio dopo l’operazione caricai mia moglie su una sedia a rotelle ed andammo a trovare Giulia su in Terapia Intensiva per verificare la reale situazione di ns. figlia.
Il primo mese
Dopo che Giulia venne operata, cominciò il suo e il nostro percorso presso il reparto al quinto piano, dove ad ogni bambino ricoverato è permesso di ricevere esclusivamente la visita dei genitori durante la fascia oraria 9 – 21.
Ai bimbi è associato un numero alla culletta ed il nostro è l’8 (il mio numero preferito essendo nato l’8 e in genere dico anche il mio numero fortunato).
Il numero serve anche per avere la disponibilità di un armadietto per le borse e la gestione dei camici da indossare ogni qualvolta si accede alle stanze. Stanze che devono essere il più possibile protette da contaminazioni esterne.
La regola era di indossare il camice (e la mascherina se ammalati) e di lavarsi sempre bene le mani prima di entrare nei locali della terapia intensiva.
Giulia era in fondo al piano, per arrivarci bisognava attraversare tutto il locale con le incubatrici e dove in genere i genitori non c’erano quasi mai.
Io la ritrovai nella stessa condizione di quando l’avevo lasciata prima dell’operazione (rimase per 10 lunghi giorni così).
Era distesa nella sua culletta, con il tubo in trachea e completamente paralizzata dai farmaci.
I dottori ci confermarono che l’operazione era andata bene e che ora cominciavano i trattamenti di recupero.
Una caratteristica di Giulia fu che, anche nei primi giorni, quelli più critici, la sua condizione generale si mantenne sempre stabile, infatti ad ogni ns. domanda sullo svolgersi della situazione, i medici oltre a non sbilanciarsi mai in modo approfondito, usavano risponderci che era stabile e noi la prendevamo sempre come una notizia positiva, anche se l’attesa che le condizioni migliorassero, con il trascorrere dei giorni ci lasciava molto perplessi.
Noi ovviamente dipendevamo unicamente dalle comunicazioni dei dottori e delle infermiere, senza avere la minima conoscenza tecnica, comunicazioni che spesso si riducevano al minimo indispensabile, perché in definitiva i genitori anche se avevano il permesso di stare nei locali, non sempre erano ben tollerati, dato che nel reparto c’era sempre moltissimo da fare e tutti erano sempre di corsa.
Al Buzzi, permettono la presenza dei Genitori anche in terapia intensiva neonatale, perché come ci dissero, si vuole fare partecipi i Genitori il più possibile alle condizioni dei bimbi che prima o poi dovranno portare a casa e a cui dovranno essi stessi prestare attenzione.
Effettivamente l’esperienza in Ospedale e l’addestramento sul campo ci fu fondamentale per proseguire relativamente tranquilli nella gestione casalinga dell’assistenza.
Mi riferisco in modo particolare a mia moglie, perché se fosse dipesa da me la vita di mia figlia, non sono come sarebbe potuta andare e certamente non me l’avrebbero consegnata come fu a suo tempo.
In pratica nei 3 mesi di permanenza in Ospedale, mia moglie avrebbe potuto aspirare al ruolo del Primario, mentre io al massimo avrei potuto fare il barelliere o il responsabile della spazzatura.
Ritornando alla nostra presenza in reparto, noi eravamo presenti tutti i giorni per circa 12 ore e nel limite del possibile eravano sempre in cerca di notizie su nostra figlia, e spesso eravamo mal sopportati dai Dottori, anche se facevano rapide apparizioni, ma soprattutto dalle infermiere che invece erano molto presenti e sempre in zona e quindi potevano sentirsi sotto osservazione dai genitori.
Ciò ovviamente dipendeva molto dalle persone stesse e, una volta individuate le persone più disponibili alla comunicazione, ci si comportava di conseguenza, chiedendo più informazioni a quelle più disponibili e facendo più attenzione con quelle più critiche.
Anche con i dottori sapevamo di interagire con alcuni molto disponibili e con altri che ci liquidavano al volo o con termini medici che ci lasciavano perplessi.
Inoltre a volte alcuni non ci sembravano nemmeno molto convinti delle proprie affermazioni, mentre a volte alcuni si sbilanciavano anche troppo tracciando scenari apocalitici, mentre altri erano positivi in modo esagerato.
In pratica, sul fronte delle comunicazioni eravamo completamente in balia del reparto, l’unica certezza era la verifica reale sul campo della bimba e delle sue reazioni giorno per giorno.
Solo che, nei periodi come i primi 10 giorni in cui la situazione non si sbloccava, pensate un poco come ci si poteva sentire.
E per fortuna che spesso non conoscendo le precedenti esperienze ci accontentavamo dei pochi appigli che ci venivano dati quali “la bimba è stabile” perché ad esempio fra gli altri 3 casi a cui assistemmo nel periodo di ricovero nessuno rimase collegato al ventolino per così tanti giorni come Giulia. In un caso ci fu un bimbo che rimase solo poche ore, mentre un altro che rimase solo 1 giorno, che ovviamente ci faceva piacere per lori stessi, ma nello stesso tempo eravamo preoccupati per la situazione di ns. figlia e un poco invidiosi della loro condizione molto meno critica.
Tornando alle condizioni di Giulia dopo l’operazione, il problema principale era in questo momento la situazione del polmone sinistro rimasto da subito compresso dalla risalita dello stomaco.
Effettivamente durante l’operazione i dottori presero conoscenza dell’effettiva riduzione del polmone, ma per fortuna fu diagnosticata la possibiltà di poterlo fare funzionare in modo autonomo.
Per fare questo si doveva provvedere all’espansione del polmone, espansione che non avrebbe mai potuto portarlo alle dimensioni naturali, ma tanto da permettere la sopravvivenza della bimba.
Per fare ciò, fra tutti i macchinari collegati, quello più importante in questa prima fase era il cosidetto “Ventolino”, anche se per dimensioni poteva essere tranquillamente nominato ventolone. I Medici ci dissero che con questo strumento innovativo, che aveva come terminale un grosso tubo inserito in trachea, si effettuava un trattamento molto invasivo che trattava il polmone come un potente lavaggio e ne permettava la propria espansione.
Produceva anche una certa rumorosità, perché le frequenze immesse erano molto alte (non mi ricordo i numeri precisi, ma di molto superiori ai ventolini in convenzionale), e le stesse frequenze generavano dei leggeri ondeggiamenti sul corpo della bimba (ci dissero che gli stessi movimenti generati erano di aiuto alla situazione polmonare).
Purtroppo il tubo di collegamento era di tipo rigido e in pratica la bimba non aveva modo di poter essere disposta in posizioni differenti da quella originale, e da solo questo poi portò alla generazione di una lacerazione delle cute dietro alla testa, lacerazione che ebbe la sua complicazione nei giorni successivi, anche perché la bimba non si poteva comunque spostare dal lettino (se non erro la potemmo prendere in braccio la prima volta a quasi un mese di vita) e la morbidezza dei tessuti della testa rendevano problematica la ciccatrizzazione della ferita.
La ferita sulla testa era l’ultima cosa che preoccupava i dottori al momento, anche se noi già pensavamo che sarebbe rimasta permanente, e possiamo confermarlo attualmente, che sebbene sia coperta dai capelli, ogni volta che mia moglie la vede commenta che sarà una delle cose che Giulia gli rinfaccerà da grande.
Lo scopo del ventolino, coadiuvato dalle varie terapie, era quello di inibire la respirazione naturale della bimba, perché ci dissero che altrimenti Giulia respirando in autonomia avrebbe sovrautilizzato il polmone sano portandolo sotto stress ed in pratica disattivando il polmone schiacciato che si sarebbe potuto atrofizzare, rendendo vano un qualsiasi recupero.
Mentre, questo lavaggio polmonare inibiva la respirazione naturale e con il movimento sussultorio aiutava l’espansione.
Noi di continuo, chiedevamo ai dottori quando avrebbero potuto staccare il ventolino e la risposta era più o meno la stessa: “lo terremo attacato fino a quando sarà necessario” e poi la solita frase che le condizioni generali erano stabili.
Pur non capendone un bel nulla, eravamo comuque molto preoccupati della massiccia dose di farmaci necessari per supportare questa terapia e non vedevamo l’ora che arrivasse la bella notizia, che avrebbe dato una svolta netta alla situazione, invece tornavano nella nostra zona di riferimento a fissare come ebeti la bimba immobile nel proprio lettino con il rumore di sottofondo del ventolino, tipo un generatore/compressore in forma lieve, ma perennemente presente. Inoltre dopo qualche giorno uscì anche un’affermazione dei Dottori del tipo che ovviamente non si poteva pensare di continuare all’infinito con il ventolino, perché abusandone c’era anche la possibilità che il polmone stesso potesse in un certo senso “scoppiare” se portato ai limiti della sopportazione o comuque riportare dei danni irreparabili.
Esattamente dopo 10 giorni dalla nascita, una mattina arriviamo all’Ospedale come al solito e troviamo la bella sorpresa, con Giulia che non era più collegata alla macchina principale.
Ovviamente fu un momento accolto con gioia da parte nostra, anche se i dottori da subito calmarono i nostri entusiasmi (è sempre meglio volare bassi in questi momenti), infatti ci comunicarono che non poteva ancora considerarsi una situazione definitiva e che vi era anche la possibilità di ritornare alla configurazione iniziale (cosa che poi comunque non avvenne).
Non abbiamo mai saputo, se lo scollegamento del ventolino fu determinato dal massimo dei giorni di collegamento possibili, oppure se avevamo raggiunto le giuste condizioni per passare alla fase successiva, o come spesso avviene se fosse stata una scommessa che Giulia doveva affrontare.
Da quel giorno iniziò il lento e difficoltoso percorso del recupero delle funzionalità vitali di Giulia, che in quel momento erano essenzialmente legate alla fase respiratoria.
La fase successiva al ventolino, prevede di continuare con la respirazione assistita, ma attraverso uno strumento meno invasivo rispetto al precedente. I medici lo chiamano ventolino in convenzionale, e prevede il solito tubo in trachea. Solo che questa macchina permetteva a Giulia di cominciare a gestire in autonomia la propria respirazione, e cioè quando Giulia respirava da sola la macchina interrompeva l’assistenza, altrimenti fungeva da aiuto e si sostituiva alla respirazione stessa.
Noi eravano li ad osservare gli interventi sonori della macchina che evidenziava la mancanza di saturazione e contava le respirazioni della bimba.
Non potevamo ancora assistere personalmente Giulia, sebbene iniziasse una lenta diminuzione delle dosi di sedativi, ma era ancora completamente assente.
Insomma erano i primi respiri che Giulia effettuava con il proprio polmoncino. Ora si doveva controllare come progrediva la situazione. Non conosco le statistiche in merito sugli altri bimbi, ma noi dovemmo resistere altri 20 giorni attaccati al ventolino in convenzionale, che a posteriori ci sembrarono un’eternità.
La cosa bella del convenzionale era che rispetto al precedente faceva uso di tubi più morbidi e flessibili, che permettevano una certa mobilità della bimba, riuscendo finalmente a modificare leggermente la propria postura, sebbene fosse costantemente inchiodata alla propria culletta.
Durante questa seconda fase (passati i primi giorni concentrati sull’unico punto del distacco del ventolino) abbiamo potuto constatare tutte le criticità su cui i dottori stavano già lavorando.
Ecco la lista dei problemi:
Ovviamente il problema principale rimaneva il polmone sinistro,che una volta espanso doveva dare le risposte attese.
Poi c’era il problema del cuore, che oltre ad essersi spostato a destra causa la risalita a sinistra dello stomaco, doveva essere monitorato in quanto la forte terapia lo aveva messo sotto stress. Infatti dissero che ci fu un ispessimento delle pareti.
Poi c’era il problema del polmone destro, quello buono, ma anch’esso comunque schiacciato dal cuore spostatosi a destra.
Poi c’era il problema degli altri organi risaliti, quali la milza e l’intestino e lo stesso stomaco, che durante l’operazione furono riposizionati sotto il diaframma, ma nessuno poteva dare certezza del loro corretto funzionamento in quanto non nati nella loro sede originaria.
Poi c’era il problema del travaso di liquido presente nei polmoni, che in un primo momento sembrava interessare soprattutto il polmone destro, tanto che vi fu richiesto un drenaggio tramite un piccolo intervento effettuato direttamente dai dottori della terapia intensiva per aspirare il liquido in eccesso che non riusciva ad essere smaltito da solo.
Successivamente, anche se spesso se ne prospettava l’uso, non ce ne fu bisogno di altri drenaggi.
Poi c’era da porre attenzione ad eventuali infezioni derivate dalla persistente applicazione delle flebo/cateteri applicati a Giulia ed in particolare il tubo utilizzato per l’alimentazione che passava dal braccio per andare sotto la spalla. Il catetere fu mantenuto per circa 1 mese (tempo massimo applicabile) e una leggera infezione si presentò, ma i medici la presero per tempo e curata tempestivamente per cui non portò a particolari criticità. Inotre dopo il primo mese non fu più necessario reimpiantare il catetere per l’alimentazione, ma si proseguì con le flebo classiche, più aggiuntivi esterni.
Insomma, il primo mese passò essenzialmente con noi ai margini della culletta di Giulia senza poter effettuare praticamente nulla, eravamo li che osservavamo i monitor collegati, le infermiere che di continuo cambiavano Giulia e sostituivano gli alimenti e le medicine e con i dottori che di continuo facevano prelievi del sangue (quasi 1 al giorno i primi giorni), le lastre all’addome (anche 2 al giorno i primi giorni), piccoli interventi e quant’altro.
Una delle cose particolarmente sgradevoli che giornalmente le infermiere effettuavano, era l’aspirazione del ristagno biliare formatosi a causa dell’operazione.
Veniva calato dal naso un sondino nasograstico e una volta sceso al punto giusto, si provveva all’aspirazione del ristagno.
Quella del sondino nel naso sarà una caratteristica di Giulia durante la sua permanenza all’ospedale, tanto che dovemmo pure gestirlo anche a casa.
Il primo abbraccio
Durante questa seconda fase ci furono i primi momenti belli, che mostravano il progredire di nostra figlia, come ad esempio lo spostamento fisico della bimba dalla prima saletta singola in fondo, verso l’interno del salone più grande insieme alle incubatrici. Sebbene nella realtà si fosse spostata solamente di pochi metri (perché era appoggiata alla vetrata che divideva dalla saletta precedente) solo il fatto di avvicinarsi all’uscita ci mise di buon umore, infatti i bimbi in genere passavano dai reparti più intensivi e più lontanti e si muovevano verso il nido dove rimanevano in osservazione prima di essere dimessi, locali che erano contigui all’uscita.
Inoltre la posizione dove si trovava ora permetteva, anche se con difficoltà, la visione delle persone che nei momenti di visita, ora potevano osservare i bimbi dalle vetrate esterne che giravano tutte intorno al piano.
In un certo qual senso l’uscita dalla terapia intensiva era anche materialmente determinata dall’avvicinamento alla porta di separazione fra il reparto sterilizzato ed il corridoio di ingresso.
Noi auspicavamo di raggiungere al più presto il nido di osservazione, ma ci rendevamo conto da soli delle difficoltà e dei tempi lunghi che si prospettavano.
Poiché eravamo in Agosto e quindi in tempo di ferie, capitava spesso che quando dottori ed infermiere salutavano il reparto, si faceva il commento spiritoso sul fatto che ci si augurava di non rivederci al rientro o di rivederci nel nido, ma nella realtà abbiamo potuto attendere il rientro di tutti, anche di chi fece le ferie più estese,per ritrovarci sempre nelle stessa posizione fisica (infatti uscimmo il 19 ottobre).
Dopo 20 giorni di ventolino in convenzionale, finalmente venne il momento di estubare Giulia, cioè di togliere il tubo che passando dalla trachea permetteva ai polmoni di saturare al meglio possibile.
Giulia, non era ancora completamente liberata dalla respirazione assistita, ma fu un bel passo avanti. Infatti si passò all’utilizzo delle Cpap, che erano delle canule che venivano applicate alle narici immettendo ossigeno, ma perlomeno si limitavano ad un’applicazione esterna e consentivano una più vasta manovrabilità della bimba, che ora poteva assumere qualsiasi posizione all’interno della propria culletta.
C’era solo il problema di riuscire a fissarle nel modo più ottimale e si provò collegandole ad un cappellino (ma con scarso risultato) per finire con il classico cerotto utilizzato come fermo.
Queste cannette, potevano anche essere completamente staccate per alcuni periodi, tant’è che per la prima volta mia moglie potè finalmente abbracciare sua figlia e coccolarla per un quarto d’ora.
C’era sempre la difficoltà e l’intralcio di avere i cavi di monitoraggio collegati, ma arrivò quel meraviglioso momento in cui la madre può abbracciare la propria creatura, portata in grembo per nove mesi.
Uno dei gesti più naturali e spesso simbolo della maternità, il proprio bimbo che viene adagiato fra le braccia della madre, appena partorito, per noi venne vissuto esattamente a distanza di 1 mese dalla nascita.
E su questo avvenimento, ci sarebbero delle cose curiose da raccontare.
Infatti, una mattina che mia moglie arrivò come di consueto all’ospedale, trovò una delle infermiere che stava seduta sulla sedia con in grembo Giulia, allorchè mia moglie si chiese il perché anch’essa non avrebbe potuto fare altrettanto. Cosa che poi avvenne puntualmente e che si ripetè sempre più frequentemente.
Noi tendevamo sempre ad essere di minor intralcio possibile alle infermiere, ma non capimmo mai il perché con alcune era praticamente vietato fare qualsiasi cosa, mentre con altre si riusciva ad essere più partecipi della situazione.
Passare un mese intero ad osservare la propria figlia, senza poterla abbracciare non è proprio una situazione facile da sopportare, ed inoltre mia moglie cominciava ad avere dei dubbi sul fatto che Giulia la riconoscesse come madre, dato che passava l’intera giornata insieme a persone diverse.
Dopo un mese, sebbene ancora sotto gli influssi dei sedativi (sempre più blandi) e le cure intense somministrate, noi presupponevamo che Giulia cominciasse a richiedere l’affetto dei genitori e il fatto di non poterla nemmeno abbracciare ci lasciava sconsolati.
Così come più avanti, quando la bimba era certamente più attiva e passava mezza giornata con la mamma, al momento di lasciarla alla sera, quando eravamo costretti ad abbandonare il reparto, ce ne andavamo sempre con il groppone in gola, con la sensazione di abbandonarla.
Infatti, sebbene il reparto fosse sempre presidiato dalle infermiere, il pensiero andava sempre a Giulia che doveva passare la notte e parte della mattinata successiva, li da sola nella propria culletta. Ci chiedevamo, ma se si sveglia e cerca la mamma ? e se si mette a piangere ? chi la tranquillizza ? e via dicendo.
Perché, le infermiere, anche quelle più sensibili, spesso erano impegnate nella normale assistenza ai bimbi e quindi ci potevamo aspettare che se la bimba ad esempio piangeva o si lamentava, fosse lasciata senza consolazione.
Infatti, alcuni allarmi ci pervennero sempre più chiari, perché quando arrivava mia moglie alla mattina, spesso le infermiere la riprendevano per essere arrivata troppo tardi, sottointendendo che la bambina richiedeva attenzioni e in mancanza della madre erano costrette ad assisterla.
Essendo sempre più sveglia e diventando grandicella, Giulia cominciava a mal sopportare il fatto di essere costretta nel lettino e certamente le infermiere non avevano tempo di prenderla in braccio o farla giochicchiare come quando arrivava la mamma.
Inoltre dopo il primo mese, io avevo ripreso il lavoro e mia moglie non poteva certo arrivare in ospedale per l’apertura della terapia intensiva (h.9,00), poiché prima provvedeva ad accompagnare il fratellino all’asilo e poi doveva raggiungere l’ospedale attraverso le strade intasate dai pendolari che la mattina si recano al lavoro.
Insomma c’era anche l’apprensione per non arrivare presto all’Ospedale, e di non lasciare troppo tempo da sola Giulia. Una volta mia moglie mi raccontò che arrivando una mattina, trovò Giulia che dormiva nel suo lettino pieno di vomito. Si era riaddormentata e l’avevano lasciata li così come era.
Momenti d’Allarme
Sebbene il decorso di Giulia stava proseguendo con progressione costante, senza gravi criticità, capitarono anche dei momenti di particolare allarme dove la bimba accusava delle crisi passeggere che ovviamente ci buttavano nel panico.
Possiamo parlare solo di quelle che abbiamo potuto assistere di persona durante il giorno.
In particolare accaddero nel secondo mese, quando Giulia non aveva più i respiratori collegati, in cui, il computer dove era collegata, si metteva a suonare all’impazzata.
Le cause erano determinate in genere dai valori del cuore con battiti sempre in genere molto elevati con alcuni momenti che pensavamo che non potesse reggere agli sforzi, ma i momenti peggiori erano quando aveva delle crisi respiratorie, dove i valori del computer scendevano ai livelli minimi che richiedevano l’intervento tempestivo delle infermiere e dottori con la respirazione assistita.
Giulia assumeva delle colorazioni veramente allarmanti e noi ci chiedevamo come avremmo potuto mai portarla a casa in quelle condizioni.
Ovviamente quelle giornate erano vissute con particolare apprensione e si faticava ancor di più a tornarsene a casa la sera. E una volta a casa si chiamava l’ospedale per avere rassicurazioni che in genere pervenivano, ma una volta ci dissero che per fare superare la crisi a Giulia dovettero reintubarla in trachea, buttandoci letteralmente nel panico.
Poi invece all’indomani mattina al nostro rientro in ospedale trovammo Giulia di nuovo senza il tubo di respirazione.
Quel giorno in cui venne reintubata, passato quel momento critico che ci aveva mandato in depressione, Giulia ebbe una forte ripresa e cominciò un deciso miglioramento.
L’allattamento
L’allattamento fu anch’esso una causa di stress per mia moglie.
Infatti, già era reduce da una pessima esperienza con il primo figlio, un po’ per mancanza di latte e un po’ perché era un lazzarone lui stesso, che dovemmo addirittura ricoverarlo in Ospedale dopo la prima settimana che eravano a casa e si lamentava in continuazione.
Poi capimmo che si lamentava perché non riusciva a mangiare a sufficienza. Infatti, il latte pareva uscire dal seno, ma praticamente finiva immediatamente e lui non trovandone a sufficienza di arrabbiava. Ma questo lo capimmo una volta ricoverati.
Quindi, già partivamo male, anche se per questa gravidanza mia moglie si sentiva più impostata con il latte, solo che l’impossibilità di allattare la bimba per oltre un mese mandò tutto all’aria.
In ospedale ci dissero comuque di proseguire nel tirare il latte e di metterlo da parte in frigo che al momento opportuno si sarebbe utilizzato per i primi pasti di Giulia (sempre che non si andava troppo lontano nel tempo).
Ma le condizioni non proprio ottimali, fecero pian piano scomparire tutto il latte. Dopo le prime settimane di tiraggio a mia moglie non venne più latte.
Mi ricordo che nelle giornate migliori mia moglie riusciva a malapena a riempire il barattolino da 100 grammi, ma in genere si stava sulla metà del barattolino, quando altre mamme ne riempivano 3 di barattolini e più volte al giorno.
I problemi maggiori li abbiamo incontrati quando si cominciò ad allattare Giulia.
Un bel giorno (dopo più di 1 mese dalla nascita) i dottori decisero che si poteva iniziare a nutrire Giulia anche attraverso il latte e non solo via flebo.
Si cominciò con microdosi di pochissimi grammi (la prima volta non superarono i 5 grammi), anche perché prima di tutto bisognava vedere come reagivano tutti gli organi sottoposti all’operazione iniziale.
Da subito capimmo che il problema non sarebbe stato di poco conto, innanzitutto perché a distanza di 1 mese bisogna far capire alla bimba come deve succhiare.
Inoltre doveva anche imparare a distribuire la respirazione contestualmente alla ciucciuata.
Insomma una cosa che è normale per qualsiasi bimbo, per Giulia era un’attività difficilissima, correndo il rischio che alla prima poppata si soffocasse.
L’obbiettivo prefissato era che bisognava allattare sempre più di frequente Giulia, poche quantità, ma più frequenti in modo che prendesse confidenza con l’attività, e soprattutto bisognava limitare l’afflusso di latte che non doveva scendere in modo corposo ma a quantità veramente minime.
Fatto sta che questa operazione di allattamento diventava molto lunga e ci voleva molta pazienza da parte delle infermiere (Giulia era ancora in condizioni da non potersi muovere facilmente dalla culla).
Bisognava anche riuscire all’interno della giornata a completare il fabbisogno minimo per la crescita.
Per tutti i motivi espressi sopra si passò all’utilizzo del sondino, che viene inserito dal naso, facendolo scendere fino allo stomaco, sondino che è attaccato ad una siringa, tipo flebo, piena di latte, e collegata ad una macchina che a velocità minima faceva scendere il latte stesso. Le prime poppate (meccaniche) di 30/40 grammi potevano anche durare 1 ora.
Facendo così l’infermiera doveva solo preoccuparsi di attaccare la siringa, ma ovviamente Giulia non imparava a mangiare da sola.
Del problema dell’alimentazione non ce ne avevano mai parlato prima del parto, ma una delle caratteristiche dell’ernia diaframmatica è proprio l’impossibilità a nutrirsi in modo costante.
Nei primi mesi, quest’attività di succhiare che come ben si conosce è una delle attività primarie nei neonati e come si usa dire è una cosa innata e nella natura degli esseri umani, per questi bimbi (almeno certamente per la nostra) diventa di una difficoltà estrema.
Al tutto si aggiungeva il ricorrente vomito che Giulia aveva durante l’allattamento.
Quasi mai si riusciva a terminare il pasto previsto perché immancabilmente la bimba vomitava o dava chiari segnali in tal senso.
Il problema dell’alimentazione è un incubo che ancora oggi ci portiamo dietro.
In ospedale la bimba veniva pesata tutti i giorni per verificarne il peso perché la situazione era sempre molto critica.
Una delle cose curiose, fu che al momento delle dimissioni, con Giulia che mangiava essenzialmente dal sondino, la dottoressa ci formulò la seguente dieta:
4 pasti al giorno per 150 grammi di latte per un totale di 600 grammi.
Erano 3 mesi che tutti i giorni combattevamo con l’impossibilità di farla mangiare e ci consegnano una dieta, come se il riferimento fosse un bimbo senza i problemi di Giulia.
Innanzitutto mia moglie fu addestrata a calare il sondino nasograstico in modo da poterla allattare come si faceva all’ospedale, e così speranzosi ce ne andammo a casa, anche perché non se ne poteva più dell’ospedale.
Solo che a casa la situazione fu da subito ingestibile, Giulia il sondino non lo sopportava affatto, anche perché, non facendo più uso di sedativi la bimba era molto più attiva e non gradiva proprio il tubo nel naso e qualora mi moglie riusciva nell’opera di infilarglielo, immediatamente lei se lo strappava.
Solamente di notte, mentre la bimba dormiva,si poteva calare il sondino e nutrirla piano piano mettendo il latte nella siringa. Riuscimmo a farlo solo nella prima settimana svegliandoci a metà notte per effettuare l’operazione che durava 40 minuti, dandoci il cambio a tenere sollevato la siringa ed osservando che il latte scendeva piano piano.
Capimmo quindi che l’unica strada da percorrere era di insistere nell’allattamento tradizionale con il biberon, solo che anziché 4 pasti ne facevamo anche 10.
Tenevamo conto di ogni poppata e dei grammi ingeriti al fine di arrivare alla fine della giornata con il totale dei grammi mangiati.
Abbiamo un quadernone dove segnamo tutto quello che succedeva nella giornata, soprattutto le poppate, ma anche i medicinali da prendere e abbiamo segnato tutto fino al compimento del primo anno, dove abbiamo sostituito il quadernone e abbiamo anche diminuito le osservazioni da memorizzare.
Consultando il quadernone, nei primi giorni dopo le dimissioni, Giulia faticava a superare i 400 grammi di latte (considerate le 8/9/10 poppate) e fino all’anno le volte che si superavano i 600 grammi erano accolte con delle feste tanto erano rare.
Ancora oggi a quasi 2 anni, dove manteniamo 3 poppate al giorno, Giulia non riesce a finire il suo biberoncino di 150 grammi, ma quasi sempre lascia pochi grammi di latte.
In generale il problema dell’alimentazione è una delle criticità più forti per noi con cui combattiamo tutti i giorni, e anche nelle giornate ottimali, è sempre dura raggiungere le quantità minime, e se da una parte Giulia gradisce molte pietanze (molte di più ad esempio del fratello maggiore) il problema è sempre nelle quantità ridotte che assume.
Questo ovviamente quando sta bene, perché basta nulla per fargli passare l’appettito.
Quando si ammala i pasti saltati non si contano.
La seconda parte
Nella seconda parte della degenza, dopo un mese e mezzo di ubicazione nell’area dedicata alle cure intensive, ci siamo trasferiti nelle stanze dedicate ai nidi e all’osservazione dei bimbi meno gravi o in via di dimissioni, stanze sempre all’interno del reparto di teparia intensiva neonatale.
Ci stavamo avvicinando quindi all’uscita dal reparto, anche se il periodo di osservazione fu lungo più di un mese.
I problemi da monitorare erano essenzialmente quelli relativi all’alimentazione già descritti, e quelli di respirazione legati all’evoluzione della situazione polmonare.
Finalmente tutti i macchinari erano scollegati,a esclusione del saturimetro, una macchinetta specifica dotata di un lungo filo, diversamente da quelli del computer centrale fino a prima collegato. Avere questo filo molto lungo ci permetteva di gestire con più agilità Giulia e di spostarci all’interno della stanza anche di qualche passo.
Si facevano in pratica delle piccole passeggiate con Giulia in braccio e ci si poteva quindi anche avvicinare meglio alle vetrate dove i parenti e amici potevano vederla meglio.
Anche la situazione dei medicinali in uso, era fortemente diminuita e le lastre erano fatte solo se indispensabili.
Bisognava fare in modo che la bimba prendesse un peso sufficiente e che si rendesse autonoma con la respirazione, prima di deciderne le dimissioni.
Noi genitori, sebbene i momenti più delicati fossero passati, anche in questa seconda fase non eravamo molto tranquilli, primo perché non avendo delle scadenze prefissate non sapevamo comunque quando saremmo potuti uscire, poi i continui viaggi da casa all’ospedale cominciavano a pesare, e la sera lasciare Giulia da sola e sempre più attiva ci lacerava.
Alla fine arrivò anche l’ultima settimana, dove i dottori ci preannunciarono che ogni giorno poteva essere quello buono per le dimissioni.
La bimba aveva progredito a sufficienza e seppur con grande fatica, si stavano raggiungendo i 4 kg di peso che era il limite minino che si erano imposti.
In pratica a 3 mesi Giulia raggiunse lo stesso peso del ns. primo figlio (3,840 alla nascita).
Si rendevano necessari gli ultimi controlli e se gli stessi avessero dato gli esiti previsti potevamo andarcene a casa.
Gli esami che dovemmo sostenere furono dei prelievi, delle visite specialistiche e una risonanza cerebrale. Noi pensavamo che tutti fossero dei controlli di rito, invece nel parlarne con i dottori, veniamo a sapere che la risonanza è richiesta per il monitoraggio del liquido cerebrale in eccesso, già precedentemente riscontrato nelle ecografie.
Ci dissero che il liquido in eccesso riscontrato sembrava in riassorbimento e la risonanza doveva confermarne questa tendenza.
Non ne sapevamo proprio nulla e ciò ci spaventò non poco, perché si sa quali danni possa fare una situazione del genere sullo sviluppo successivo della bimba.
I risultati degli esami, sebbene non fossero dei migliori, ci diedero il via libera alla dimissione, in particolare la risonanza confermò un leggero quantitativo di liquido in eccesso ma i dottori ci tranquillizzarono dicendo non vi erano immediate preoccupazioni.
Ma noi tranquilli proprio non lo eravamo.
Finalmente a Casa
Finalmente il giorno 18 Ottobre 2005, 79 giorni dopo la nascita, abbiamo il via libera per andare a casa.
Anche se non proprio tutto è a posto, i medici ed anche noi, siamo convinti che la bimba in un ambiente più tranquillo come quello di casa, avrebbe agevolato di una ripresa più rapida.
Ovviamente Giulia era in condizioni di procedere autonomamente, ma ancora erano necessari alcuni nostri presidi.
A casa ci siamo attrezzati di Saturimetro, gentilmente datoci in presito dall’unità TIN dell’ospedale per verificare che la respirazione e il cuore rimanessero nei livelli di guardia.
Poi abbiamo avuto necessità di munirci di ossigeno, con un bombolone fornitoci dall’Asl e prontamente ricaricato ad ogni esaurimento.
Abbiamo recuperato anche i Sondini e le siringhe giganti (schizzettoni) per il nutrimento dal naso.
Infine alcuni medicinali da dare in modo ricorrente a Giulia.
Insomma non era proprio una cosa leggera, ma un’assistenza 24 ore su 24 che solo al pensiero mi venivano i brividi.
Ma in qualche modo ce la si fece, e a parte i problemi di alimentazione, bisogna dire che l’ambiente familiare con il fratellino e i parenti aiutarono la bimba che probabilmente moralmente ne giovò rispetto alle restrizioni dell’ospedale.
Una volta a casa si cominciò le visite dal pediatra, all’Asl, al Pronto Soccorso e così via.
Nel primo anno, una settimana senza passare da uno di loro, non me la ricordo proprio.
Quando ritorniamo all’ospedale per le visite varie, non manchiamo mai di andare in terapia intesiva a salutare i dottori e le infermiere e in uno dei primi ritorni, mentre gli dicevamo quanto era duro accudire Giulia, un’infermiera ci disse che prima di lasciare ai genitori dei bimbi in queste condizioni valutavano bene quanto i genitori stessi potevano risultare affidabili nel proseguimento delle cure a casa propria, e nel nostro caso valutarono che le dimissioni potevano essere rilasciate. Certamente l’affidabilità non fu determinata dalle mie prestazioni ma dall’affidamento in mia moglie.
Inoltre c’è un aneddoto riferito da un’infermiera, che alcune di loro con il primario avevano scommesso, che entro la prima settimana saremmo ritornati all’ospedale per ricoverare Giulia, cosa che in effetti non avvenne.
Il ricovero avvenne solo successivamente, ma per problemi indipendenti dalla ns. volontà.
Il 2 Agosto nacque.
A 3 mesi venne a casa.
A 4 ½ ricovero per bronchiolite (1 settimana).
A 11 mesi rioperata per intestino e rierniatura dello stomaco.
Ora nel momento che sto scrivendo questo documento a quasi 22 mesi siamo reduci da un inzio di broncopolmonite curata con delle punturone che ci hanno evitato l’Ospedale.
Curiosità
Concludo il racconto citando 2 situazioni che se vogliamo sono anche divertenti.
IL SATURIMETRO
IL SANTO PROTETTORE
IL SATURIMETRO
Al momento delle dimissioni, ci hanno dato a prestito gratuito uno dei saturimetri che l’ospedale (in particolare l’associazione Voglia di Vivere) mette a disposizione.
Il saturimetro era necessario perché ancora Giulia faticava molto nella respirazione e qualora ne necessitasse, bisognava fornirle dell’ossigeno.
Esso è grande quanto un videoregistratore, e collegato con degli elettrodi alla bimba, ne permette il monitoraggio della respirazione e del battito del cuore.
Deve essere preimpostato con livelli d’allarme e collegato alla corrente per essere messo in funzione.
Nei 3 mesi passati in ospedale abbiamo visto come le inferiere collegavano l’elettrodo, e in genere avveniva sul palmo alla mano o al collo del piede di Giulia e cosi facemmo anche noi a casa.
Solo che a casa, oltre alla preoccupazione di controllare Giulia, eravamo assillati anche dall’aggeggio elettronico che per qualsisi motivo si metteva a suonare.
Infatti anche impostando il livello al minimo consentito, solo con lo spostamento della bimba e anche per fatti propri, si metteva a suonare.
Creandoci confusione, sul fatto che suonasse per effettiva necessità di ossigeno oppure perché andava fuori giri. Ci adattammo all’uso visivo di Giulia, nel senso che se la vedevamo affaticarsi, gli avvicinavamo l’ossigeno.
La macchina infatti appena non vengono rispettati i limiti impostati si mette a suonare, allora si agisce sul pulsante e si ferma per 1 minuto, ma se il livello non si ripristina ricomincia immediatamente a suonare. Inoltre avendo ricevuto dall’Ospedale un elettrodo solo, usurandosi, probabilmente aumentava i problemi di connessione.
Aggiungiamo anche che la bimba stessa movendosi di continuo generava allarmi incontrollati per la macchinetta.
Insomma abbiamo passato 2 mesi con il saturimetro che suonava all’impazzata. Si interveniva sul pulsante anche 20/30 volte a notte, con mia moglie che più volte voleva buttarlo dalla finestra e spesso lo staccavamo direttamente da Giulia.
Poi quando ritornammo all’Ospedale a Dicembre per la bronchiolite con il ricovero di una settimana, colsi l’occasione di andare in terapia intensiva a chiedere un nuovo elettrodo (perché fuori non si trovavano) e me ne diedero uno nuovo confezionato.
Sulla confezione c’erano dei disegni sul come utilizzarlo, dove si notava che per i bimbi più grandicelli, si poteva collegarlo esclusivamente su di un singolo dito e non sulla mano e il piede intero e da quel momento dormimmo più tranquillamente.
IL SANTO PROTETTORE
Quando abbiamo dai primi esami abbiamo saputo delle difficoltà che c’erano da affrontare alla nascita di Giulia e iniziò a divulgarsi la notizia fra parenti, amici e colleghi, ognuno di loro provvide a fornirci santi protettori e riferimenti a cui affidare le ns. preghiere.
Noi che non avevamo dei riferimenti precisi, se non quelli classici che mi porto dietro dalla nascita che sono la Madonna (essendo nato l’8 dicembre) e Papa Giovanni (da cui ho preso il nome), ci affidammo essenzialmente al primo santo fornitoci, la cui immagine mi fu consegnata da delle mie colleghe di ufficio.
Il santo era San Riccardo Pampuri, di cui fino al quel momento non avevo mai sentito parlare. Mi dissero che è un santo giovane (infatti nasce nei primi del 1900), il cui Santuario è anche non lontano da casa nostra (verso Pavia a 60km da casa).
Insomma ci affidammo a lui e andammo anche al Santuario, prima e dopo la nascita.
La sorpresa ci fu entrando per la prima volta nella cappellina dell’ospedale Buzzi, posta nel seminterrato, luogo dove mi recavo di continuo, soprattutto i primi giorni in attesa degli eventi e dell’operazione.
Nella cappellina trova ovviamente la Madonna (non manca mai), ma anche uno spazio dedicato a Papa Giovanni, quindi le mie 2 figure di riferimento classica, ma uno grosso spazio, proprio a fianco dell’altare è dedicato a San Riccado Pampuri, con foto e la sua storia. Infatti egli oltre a dedicarsi alle cure dei malati e quindi avere attinenza con un ospedale, ebbe la caretteristica che morì proprio nella casa sita nella via di fronte all’Ospedale, trascorrrendo l’ultimo periodo di vita nell’abitazione del fratello.
Ciò ovviamente mi fece molto piacere, ma ciò che mi colpì, fu che leggendo la storia del Santo notai che era nato il giorno 2 Agosto, proprio lo stesso giorno di Giulia.
Lo presi come un buon auspicio e i primi giorni ci piansi su ogni volta che mi recavo alla cappellina.
Finale
Sono arrivato alla fine, certamente trascurando molte cose, ma tentando di descrivere questa prima parte della vita di Giulia, una bambina sfortunata o forse molto fortunata, dipende dal punto d’osservazione.
Una bimba che ha trascinato tutta la sua famiglia nel vortice dei sentimenti che si sono scatenati di fronte ad un’esperienza del genere.
Spesso si sente in giro, in televisione o sui giornali, di persone che si lanciano in avventure spericolate, quali andare nello spazio o buttarsi da un ponte con una corda o ancora combattere in prima linea o certuni che si vantano di avere fatto il giro del mondo in canoa;
ecco, mi sembra con Giulia di partecipare ad un evento spericolato sul filo del rasoio, dove un giorno non è mai tranquillo, quando sta male, ma anche quando sta bene e pensi se domani starà male, se mangia poco o se mangia più del solito, se grida la notte o se dorme di filata e ti chiedi se è tutto ok, se fa troppo caldo o se fa troppo freddo, se fa la cacca o se non la fa…… insomma per qualsiasi cosa che per un bimbo è normale, per lei è un’apprensione.
A guardare bene, buttarsi dal ponte o fare il presidente del consiglio, mi sembrano quasi cose ridicole al confronto.
Colgo l’occasione di portare la mia solidalietà a tutti, genitori e medici e persone qualsiasi che in situazioni del genere ci aiutano ad affrontare al meglio la vita dei ns. figli, persone che dovrebbero essere riconosciute per quello che fanno, invece a volte nel ns. paese preferiscono premiare i vari Vasco Rossi o Valentino Rossi con lauree ad honorem oppure onoreficenze a qualche pirla che vince il campionato del mondo (detto da me che sono un tifoso sfegatato).
Un saluto a tutti quelli che sono riusciti a leggersi la storia fino alla fine.