La storia di Clelia
“Ciao mi chiamo Clelia. Sono una bambina vivace, con due grandi occhi buoni e profondi. Oggi 6
novembre è il mio mesiversario. A voler essere precisi sono nata il 24 luglio ma il 6 agosto sono
tornata a vivere per la seconda volta!
Questo è quello che direbbe oggi nostra figlia se sapesse già parlare e, in fondo, è tutto quello che
rimane importante sapere ma la nostra storia è un po’ più complicata di così ed abbiamo scelto di
raccontarla perché tante altre famiglie trovino conforto e speranza nel leggerla e per ringraziare, a
modo nostro, chi se ne è presa cura durante le sue prime settimane di vita.
Tutta l’intera gravidanza è trascorsa senza troppi intoppi, né chili di troppo, né nausee mattutine o
serali, tanta piscina, tanto lavoro… almeno fino all’ottavo mese quando ho avvertito che qualcosa
dentro stava cambiando. Quella bambina che sapevamo già essere speciale non si muoveva molto
e questo mi preoccupava ma le ecografie, gli esami e le visite mensili andavano bene. Intanto
attendevamo il 10 agosto, giorno in cui sarebbe dovuta nascere il nostro angioletto, quando
inaspettatamente nella notte tra il 23 e il 24 luglio si rompono le acque, con tre settimane di
anticipo, e corriamo in ospedale. Alle 8.45 di martedì 24 nasce Clelia con un parto cesareo: bella,
bellissima e sana…secondo i medici! E questo è quello che ci siamo sentiti ripetere per i restanti,
terribili, tre giorni di ricovero.
Passavano i giorni e nostra figlia mangiava sempre meno, il suo pianto era un rantolo doloroso, il
colorito giallastro e la responsabile di tutto sembravo essere io: “Signora insista con il suo latte –
diceva uno – Signora non vede che non mangia la vuol fare morire? Diamole il latte in formula –
diceva l’altro e continuavano: “La culli – La lasci”; “Povera bambina come farà a crescere con una
mamma come lei che non ha la pazienza di darle il biberon – La bambina non mangia perché è pigra,
non si preoccupi; si sente ancora nella pancia della mamma”; “È prematura – no – È pretermine”
Tuttavia sentivo in quelle umiliazioni esserci un fondo di verità: mia figlia non era pronta per venire
al mondo! Ma era nata e qualcosa non andava, così non mi sono rassegnata e, insieme a mia sorella
che è sempre rimasta al nostro fianco, tra un pianto inconsolabile e l’altro spostavo la bambina dal
piano maternità a quello di neonatologia dove alla fine l’hanno trattenuta per una notte e ore e ore
interminabili garantendole, loro sì, tutte le poppate. La diagnosi era sempre la stessa: “Lei è
esageratamente ansiosa questa bambina non ha nulla tranne che una madre incapace di
prendersene cura!
Arriviamo all’ultimo giorno, quello dello screening, facciamo presente che non mangia ancora, che
dorme molto (praticamente non apriva mai gli occhi) e che si lamentava. Mostriamo anche un video
dove lei era ansimante in cerca d’aria, così, nella normalità degli eventi e solo per tranquillizzarci,
misurano la saturazione: 84/100.
La dottoressa di turno ci invita a lasciarla lì per un ulteriore controllo ma, probabilmente commossa
dalla mia disperazione, aggiunge che se avessimo voluto avremmo potuto, sotto la nostra
responsabilità, portarla via. Ovviamente non accettiamo e intanto io vengo dimessa. Alle 17.00
arriva la telefonata che nessun genitore vorrebbe sentirsi fare. Corriamo in ospedale increduli e
frastornati. Un medico, che avevamo visto per la prima volta quella mattina e che aveva preso in
carico la piccola, ci riceve di fretta, ci porge dei fogli, li firmiamo: “Vi spiegheranno meglio arrivati al
Policlinico, adesso non c’è tempo” dice, dopo aver accennato lapidario al quadro clinico, e
preoccupato corre in ambulanza dove la nostra bambina era già stata sistemata dentro una culla
termica e in respiro autonomo pronta per essere trasferita all’UTIN del Policlicnico G. Rodolico di
Catania. Voliamo lì. Il suo tempo aveva un valore diverso dal nostro. Noi lo avremmo capito solo
dopo!
La nostra bambina non respira ma ha la forza di voltarsi ancora una volta verso di me ed emettere
un gemito capace di trapassare il cuore. Si spalancano le porte dell’UTIN, dentro una dottoressa
bionda ci attende già e con fare deciso ci invita alla calma, ci prepara alla scena alla quale avremmo
assistito e si congeda anche lei con poche parole che tuttavia spostano l’attenzione dell’intera
vicenda: non più io ma Clelia aveva bisogno d’aiuto: “Me ne devo andare la bambina mi aspetta ha
bisogno di essere intubata ed è più importante di qualsiasi spiegazione, ci vediamo dopo e vi darò
tutte le informazioni che vorrete” dice la dottoressa Mattia e così fu.
Per la prima volta dopo giorni prende piede una diagnosi scientifica che sarebbe diventata sempre
più precisa man mano che i giorni passavano: Ernia diaframmatica sinistra, non diagnosticata in
gravidanza, sindrome da distress respiratorio, ipertensione polmonare persistente.
È sabato sera, la dottoressa Mattia senza remore, allerta subito il primario: lunedì lo avremmo
incontrato non certo senza timore. Conoscevamo il Prof. Di Benedetto di fama, eravamo consapevoli
che era il migliore e che nostra figlia sarebbe stata in ottime mani tuttavia allora non immaginavamo
che le avrebbe salvato la vita e in cuor mio non sapevo cosa aspettarmi almeno fin quando, dopo
un lunghissimo colloquio, mi guarda dritto negli occhi si alza di scatto e mi dice: “Adesso basta
dobbiamo operare” Mettendo a tacere le mie domande incalzanti mi stringe la mano e anche lui
scappa via dimostrando che a nulla valgono le reticenze di genitori smarriti dinanzi ai suoi piccoli
pazienti! Apprendiamo da lui stesso che l’intervento è tecnicamente riuscito: le minuscole anse
erano state riposizionate e la breccia chiusa e che adesso, che dovevano ristabilirsi le pressioni, tutto
dipendeva dalla risposta fisica della bambina.
Appena un’ora dopo uscendo da quelle porte con il capo chino fa un cenno con la mano e ci richiama
in studio dove ci informa che le condizioni di nostra figlia sono gravi e intima di non muoverci da lì.
L’umanità e il rispetto di quel gesto mite assunse in quel preciso momento le fattezze della più
temibile realtà: rischiavamo di perderla! Sono state ore atroci, non ci siamo mossi dalla grande sala
d’aspetto e ad ogni rumore sobbalzavamo sperando si trattasse di quella porta, che per tutto il
pomeriggio rimase chiusa anche alle altre mamme a causa delle difficili condizioni della bambina,
finché non fu così. Si affacciò un medico alto, che più tardi avrei soprannominato “dallo zaino giallo”
per via dello zaino medico di pronto soccorso che porta sempre con sé, e ci fece entrare: “Sono
padre anch’io, non ci sono variazioni ma state un po’ con lei farà bene a tutti! disse con la sua solita
verve diretta e autentica. Il dottor Saporito, che avremmo imparato a conoscere nelle settimane a
seguire, ha sempre riservato un sorriso e tanta allegria ai suoi piccoli pazienti garantendo loro il
diritto ad essere bambini, amati e celebrati se pur dentro culle di passaggio. Lo stesso accadde quella
sera non permettendo che una bimba indifesa lottasse per la vita senza i suoi genitori e quel sorriso
adesso era una carezza alla nostra famiglia appena formata.
Non ho parole per descrivere il dolore che provavamo perché di fronte a questo sentimento e alla
scena che si apriva dinanzi a noi c’è solo la dignità del silenzio.
I giorni a seguire furono anche peggiori. Ci svegliavamo dopo poche ore di sonno grati a Dio che
anche quella notte fosse passata: 12-24-72 ore e tante ancora che non ci sono mai appartenute!
Ogni mattina il prof. Di Benedetto ci dava le prime notizie, così apprendevamo delle condizioni della
notte e le previsioni degli interventi terapeutici per il giorno. Noi scrutavamo il suo sguardo severo,
ma non scioglieva mai la prognosi. La dottoressa Caracciolo durante i suoi turni si fermava a lungo
a parlare con me, mi lasciava sfogare e in silenzio tra sé e sé sono certa che piangeva anche lei
perché, nonostante si mostri tanto razionale, soffre per ognuno di quei piccoli bambini ed è un
sollievo poterli curare. Glielo si leggeva in viso e ogni volta che si arrabbiava, sempre con la stessa
veemenza, contemplando un piedino o una manina penzolante “Di qui, Signora, vi dobbiamo
letteralmente buttare fuori” diceva bonariamente; anche il giorno che disperati tutti insieme
abbiamo pregato ai piedi di quel lettino.
La dottoressa Mattia che ci aveva accolto, continuava a sperare e farci coraggio, parlava con nostra
figlia ogni volta che poteva e la raccomandava a Dio, intanto però la accompagnava ai controlli fuori
reparto indipendentemente dai suoi turni come successe qualche settimana più tardi quando la
vedemmo arrivare affannata ore prima dell’inizio della sua guardia.
I giorni passavano e Clelia rispondeva alle terapie. Ogni risultato raggiunto era un equilibrio precario
che ci faceva tremare il cuore aspettando lo step successivo. Lo sguardo del Prof. Di Benedetto, che
tutte le mattine la visitava, si ammorbidiva sensibilmente di volta in volta ma non scioglieva mai la
prognosi. Pian piano tuttavia era pronta per essere svegliata e così finalmente, dopo aver rispettato
e applicato tutti i protocolli, il 6 agosto Clelia è tornata a respirare da sola e adesso poteva essere
svezzata dall’alimentazione parenterale e ricevere il mio latte. Le giornate erano scandite da questi
momenti e da quel particolare appuntamento che le mamme dell’UTIN si danno due volte giorno in
sala relax tirando il latte per i propri figli. Eravamo tutte uguali nessuna esclusa, nessuna più eroica
dell’altra, nessuna più sofferente perché i figli, lì dentro, sono condivisi come la sorte che ci era
spettata. Gioivamo per i miglioramenti dei piccoli, ci scambiavamo regali fatti in casa, festeggiavamo
commosse le dimissioni e tenevamo a mente gli interventi o le visite importanti di ognuno e poi
trovavamo il coraggio di ridere! La solidarietà delle donne era tutta lì, nessuna era mai sola un po’
come si fa in una grande famiglia che, ovviamente, si aggiunge alla tua. Nonni, zii, parenti e amici
sono rimasti con il naso appiattito dietro il vetro per settimane immaginando sotto i fili, i tubi, i
respiratori e i monitor quella bambina bellissima che non avevano fatto in tempo a conoscere.
Andavano e venivano a tutte le ore, ognuno cercava di fare la propria parte trattenendo le lacrime
per farci forza, ma alla fine eravamo tutti lì per Clelia e il resto poteva attendere il suo ritorno a casa
che prima o poi sarebbe avvenuto: in cuor nostro, passato lo sgomento iniziale per quanto accaduto,
con tutta la forza del cuore che un uomo può, non abbiamo mai smesso di crederci! A loro dobbiamo
il nostro coraggio!
Una mattina finalmente mentre aspettavamo di entrare nella sala della terapia intensiva ci dicono
che nostra figlia era stata spostata alla Sub-intensiva e che, con po’ di pazienza ancora, avremmo
potuto prenderla pure in braccio per la marsupioterapia. Non mi sembrava vero che avrei di nuovo
risentito il suo odore, il suo cuoricino battere all’unisono con il mio e addirittura stringerla al seno
per allattarla adesso che respirava autonomamente. Io non mi sentivo pronta per questo, non ero
a mio agio e se non ci fosse stata mia figlia a suggerirmi come fare sotto lo sguardo attento della
dottoressa Betta, che questa attività la promuove con ogni convinzione vera, io non ce l’avrei forse
fatta. Il 15 Agosto, puntuale come tutte le mattina, il Prof. Di Benedetto ci dice che la settimana
successiva l’avrebbe rimandata a casa e così fu. A dimetterla, nonostante avesse finito il turno di
notte ormai da un pezzo, la dottoressa Mattia che stavolta apriva quella porta da dentro con un
gran sorriso per quell’angioletto che aveva accolto un mese avanti, curato e ospitato.
Adesso Clelia era sana e salva. La prognosi era sciolta!
Clelia non ricorderà ma le nostre ferite bruceranno per sempre e anche se niente è andato come
immaginavamo tutto è andato come doveva andare. Adesso la nostra bambina diventerà grande,
quando imparerà a leggere conoscerà, attraverso queste righe, tutte le persone che hanno lavorato
e contribuito al suo benessere e speriamo che continui ad essere una bimba tanto buona da non
smontare lo studio del suo pediatra!
Ringraziamo anche i dottori Ciraulo, Scuderi e Scalisi, tutti gli infermieri soprattutto Licia, Valeria e
Pina e i dottori specializzandi che non hanno mai smesso di interessarsi a noi da medici e da uomini