La Storia di Asia
Mi chiamo Asia e il 10 dicembre 1998 scoprii che la vita era una salita continua e che
dovevo fare di tutto per farmi forza e continuare ad arrampicarmi.
Ho passato sette mesi nella pancia di mia mamma a giocare con la mia gemella Areta poi
probabilmente lo spazio è diventato troppo stretto e noi avevamo molta voglia di scoprire
come era il mondo.
Così alla trentacinquesima settimana io e Areta decidemmo che era giunto il momento di
nascere, senza sapere cosa ci avrebbe riservato il futuro.
Quella mattina mamma e papà si recarono di corsa all’ospedale di San Giovanni Bianco
dove mamma partorì tramite taglio cesareo perché Areta aveva il cordone ombelicale
intorno al collo perciò l’equipe preferì non effettuare un parto vaginale.
Dopo gli esami di prassi: esami del sangue, ecocardiogramma e un colloquio con una
anestesista, i medici la portarono in sala parto.
Alle dieci e dodici nacqui io, con un peso di due chili, subito dopo iniziarono a controllare le
mie condizioni di salute tramite l’indice di Apgar.
Queste ultime risultarono subito molto critiche: il mio respiro era assente, la mia pelle era
cianotica, il mio tono muscolare era debole e probabilmente anche i miei riflessi, la prima
valutazione ebbe un indice totale di 2 punti mentre la seconda ebbe un indice di 3.
Questo parametro confermò che ero in condizioni critiche e necessitavo di manovre di
rianimazione e cure intensive urgenti.
I medici mi somministrarono l’ossigeno tramite ventilazione con il pallone AMBU e mi
fecero una lastra che evidenziò sin da subito un’ernia diaframmatica.
All’ospedale di San Giovanni purtroppo non avevano gli strumenti adeguati alle mie
esigenze pertanto decisero di mandarmi agli Ospedali Riuniti di Bergamo con urgenza.
Durante la procedura per il trasporto, una dottoressa venuta da Bergamo mi intubò e disse
a mio papà che, siccome l’ospedale di San Giovanni Bianco non aveva le attrezzature
adeguate, molto probabilmente avrei avuto dei danni cerebrali permanenti a causa del
poco ossigeno.
I medici valutarono che fosse necessario il trasferimento anche per la mia sorella gemella,
in quanto necessitava di un’incubatrice, pertanto venne caricata sulla mia stessa
ambulanza e partimmo alla volta di Bergamo.
Papà salutò con un bacio la mamma e ci raggiunse insieme a mia zia che allora era
un’infermiera.
Arrivati a Bergamo mi portarono subito in terapia intensiva neonatale, mi misero su un
lettino chirurgico e mi collegarono al ventilatore ad alta frequenza oscillatoria (da
vibrazione toracica).
Finiti i vari esami, una dottoressa arrivò in sala d’attesa da mio papà, gli disse che avevo
un’ernia con agenesia diaframmatica destra e dovevo essere operata con urgenza il prima
possibile.
Mio papà era molto sconvolto da quelle parole, si chiedeva cosa vogliono dire?
Agenesia? Ernia?
Cosa centrano queste cose con il diaframma?
La dottoressa gli spiegò che si trattava di una malformazione congenita rara molto grave e
necessitavo urgentemente di un intervento chirurgico appena avessi raggiunto una
stabilità clinica perché il tasso di mortalità era molto alto.
Di solito l’ernia diaframmatica si può evidenziare già durante la gravidanza tramite
ecografia ma nel mio caso non si è visto a causa di una gravidanza gemellare.
La dottoressa spiegò in modo delicato la mia diagnosi cercando il più possibile di
rassicurarlo.
Io non avevo il diaframma destro, tutti i visceri intestinali erano risaliti al posto del
polmone di destra schiacciandolo, impedendomi così la respirazione.
Mia madre rimase all’oscuro di tutta la mia condizione clinica fino a quando non si riprese
dall’intervento chirurgico eseguito per il parto, quando venne informata da un medico
dell’ospedale di San Giovanni.
Dopo quattro giorni mia mamma tornò a casa perché seppe delle mie condizioni di salute e
si arrabbiò moltissimo con mio papà per avergli nascosto un problema così grave.
Il pomeriggio del 17 dicembre decisero di operarmi nonostante il tasso di sopravvivenza
postoperatoria fosse del 50-70%.
L’intervento venne eseguito nel lettino per evitarmi maggiori stress ed i medici crearono
una specie di sala operatoria con dei paraventi e la strumentazione.
Mi inserirono al posto del diaframma un protesi di Gore- tex che serviva a separare la zona
addominale da quella toracica. La protesi venne fatta di questo materiale perché ha le
capacità di allungarsi e amalgamarsi con i muscoli durante la crescita.
Dopo l’intervento uscirono dalla sala operatoria il primario di chirurgia pediatrica e la
dottoressa che dissero ai miei genitori che l’intervento era riuscito ma dovevo ancora
raggiungere una stabilità clinica.
Dopo l’operazione fui sottoposta per una settimana a ventilazione ad alta frequenza,
successivamente passai alla ventilazione meccanica per trentaquattro giorni.
I miei genitori ebbero molta paura che non riuscissi a staccarmi da quel maledetto
respiratore.
Vivevano alla giornata perché non sapevano come avrei reagito, ogni giorno era una
conquista verso la loro infinita voglia di portarmi a casa con loro.
Le prime volte in cui mi fecero visita non mi potevano nemmeno toccare e il clima che si
respirava era pesante, pieno di preoccupazione, ansia e la devastante paura di perdermi.
Avrebbero voluto portarmi a tutti i costi a casa perché ero frutto del loro amore e a casa mi
aspettavano una gemella e le mie sorelle maggiori che non vedevano l’ora di crescere con
me.
Verso fine gennaio mi staccarono dal ventilatore e mi misero un casco chiamato cappa a
ossigenazione per tutto il mese di febbraio.
La mia famiglia mi prese in giro perché secondo loro ero travestita da astronauta per
Carnevale.
Passarono i giorni e la mia condizione di salute migliorò, i miei polmoni respiravano da soli
e avevano solo bisogno di ossigeno in più per imparare a essere autonomi, così iniziai a
mettere la cpap e poi gli occhialini respiratori.
Il 5 maggio, raggiunta la completa autonomia polmonare, tornai a casa con la mia famiglia