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La Storia di Pierfabrizio

(Scritta dal suo papà Fabrizio e dalla sua mamma Marcella)

Questa è una storia semplice, dove, a viste puramente umane, non c’è nulla di trascendentale.

Ma è e vuole essere una testimonianza dell’agire in chiaroscuro di una Provvidenza che lascia i suoi segni nel mondo che lei stessa ha creato. “Tu sei un Dio nascosto” scriveva Isaia, “che ha progetti di pace e non di sventura” continua Geremia, e “le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri” riprende ancora Isaia, e lo si trova non nel terremoto o nel fuoco ma “nella brezza leggera” dell’Oreb come accade ad Elia.

Ed è una storia di speranza.

In questa testimonianza le date, in un ottica di fede,  hanno la loro importanza.

La storia di Pierfabrizio ha un prologo la notte di mercoledì 22 marzo 2006: stavo tornando con la mia automobile da Cagliari dove avevo preso parte ad una cena con amici verso Iglesias: lì solitamente lavoro e vivo dal lunedì al venerdì  presso il III Battaglione Allievi quale maggiore medico dell’Arma dei Carabinieri.

Non era tardissimo, forse le 23, ma nel percorrere la strada ad un tratto, improvvisamente (ero più o meno a metà del viaggio avendo percorso circa venti-venticinque chilometri dei cinquanta che dividono le due città) ho avuto un colpo di sonno: pochi impercettibili secondi di quasi incoscienza legati alla stanchezza del giorno di lavoro (non avevo bevuto se non acqua, io sono astemio, e avevo mangiato pochissimo) che avrebbero potuto trasformarsi in tragedia, ma non lo sono diventati: Qualcuno, anzi Qualcuna mi ha  protetto con la sua mano materna, svegliandomi pochi microsecondi prima che, dopo aver attraversato le due carreggiate della superstrada, andassi a schiantarmi sul guard rail. Due “piccoli” miracoli in pochi microsecondi: non ho tagliato la strada a nessuno in quei 100, 200 metri percorsi in semiincoscienza e non mi sono sfracellato.

Realizzato quanto mi era accaduto ho capito (non chiedetemi come, ancora oggi non saprei rispondervi ma SO che è andata così) che Maria Santissima mi aveva protetto salvandomi la vita. Profondamente turbato (e premetto che non sono né un bigotto né un visionario e non sono mai stato un ardente fan della Madonna. Potevo definirmi allora un credente e praticante come tanti) quella notte, giunto al Battaglione e messomi a letto nel mio alloggio non ho potuto quasi chiudere occhio.

Ed è stato allora che riflettendo su tante cose mi è venuta in mente la mia data di nascita, il 27 novembre, il giorno in cui nel 1830 a Rue du Bac – Parigi – la Madonna apparendo ad una umile e semplice suorina vincenziana, suor Caterina Labourè, poi canonizzata, la invitò a far coniare una medaglia ovale oggi universalmente conosciuta come Medaglia miracolosa.

E mi è venuto in mente (ah, la differenza tra vedere e guardare!!) che io e la mia sposa Marcella abbiamo celebrato il nostro matrimonio il 4 ottobre del 2003, dopo 11 anni di fidanzamento, nella nostra parrocchia di Sassari dedicata a San Vincenzo de’ Paoli, il fondatore dell’ordine religioso di cui suor Caterina Labourè avrebbe fatto parte.

E non era finita: erano circa le due di notte quando seguendo uno di quei pensieri improvvisi che solo alle due di una notte insonne ti afferrano, andando a consultare un calendario e cercando il giorno in cui io festeggio l’onomastico San Fabrizio (mai festeggiato prima e praticamente sconosciuto anche a me) e scoprendo che quel giorno è  il 22 agosto, lessi (ma non me ne stupii: nulla in quella notte ormai mi stupiva ..) che in quel giorno si festeggia anche e soprattutto la Beata Vergine Maria Regina.

Tutto casuale? No, non potevo crederlo.

Presi allora la decisione di andare il venerdì successivo, 24 marzo 2006 in occasione del mio rientro del fine settimana a casa a Sassari (dove frattanto vivono la mia sposa Marcella e la nostra bambina Flavia Marcella, nata il 1° agosto del 2004) proprio nella nostra parrocchia di San Vincenzo a ringraziare la Madonnina della medaglia miracolosa, la cui statua è nella navata laterale della chiesa. E così ho fatto.

E qui comincia la nostra storia.

Da qualche mese stavamo cercando di dare un fratellino o una sorellina alla nostra bambina, ma essendo io a 230 km di distanza dalla mia sposa ed incontrandoci solo il venerdì sino alla domenica (e non sempre, dati i miei impegni di lavoro) capirete che la cosa non era poi così semplice né scontata: biologicamente dovevano coincidere troppe cose.

Comunque quel venerdì 24 marzo 2006, davanti alla Madonna, dopo averla ringraziata per quanto aveva voluto fare per salvarmi la vita due sere prima, Le chiesi di intercedere per noi e per quel nostro desiderio di mettere al mondo una nuova vita promettendoLe che se avessimo avuto una bambina l’avrei chiamata Maria e comunque maschio o femmina avrei consacrato questa creatura a lei.

Pierfabrizio fu concepito quella notte, dopo la mezzanotte, ossia il sabato 25 marzo 2006. Sabato, giorno mariano sin dall’inizio del cristianesimo e 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria, il giorno in cui lei concepì Gesù per opera dello Spirito Santo.

Naturalmente scoprimmo di aspettare un bambino circa venti giorni dopo ed io aggiunsi un altro tassello al mio personalissimo mosaico mariano, restandone affascinato e colpito. Tanto colpito da convincermi che quella creatura sarebbe stata una femminuccia, Maria appunto (con una certa perplessità da parte di Marcella, non del tutto incline a seguirmi nei miei ragionamenti “mistici”)

I giorni passavano le settimane volavano e si arriva così a fine giugno del 2006 quando il nostro ginecologo ci dice “Sarà maschio. Tutto bene per il resto.” Ci rimasi un po’ maluccio, mi ero abituato all’idea di un’altra femminuccia, non avevamo peraltro minimamente pensato a nomi maschili, ma in fondo l’importante era che fosse sano.

Un maschio dunque. Decidemmo di chiamarlo in anagrafe Pietro Fabrizio (Pierfabrizio per gli amici), aggiungendo altri tre nomi al fonte battesimale: Benedetto, Paolo e, a scioglimento della promessa da me fatta alla Madonna, Maria.

Nel frattempo ad Iglesias, nella parrocchia sul cui territorio è il nostro Battaglione, guarda caso dedicata al cuore Immacolato di Maria, era arrivata a fine aprile e per sette giorni lì era state ospite la statua pellegrina della Madonna di Fatima, la bianca Signora.

Sono stati sette giorni spiritualmente irripetibili: ho scoperto il Rosario (io che avevo sempre considerato quella pratica come cosa da vecchie bigotte!). Allora non lo sapevo, ma nei mesi a venire proprio la recita del Santo Rosario sarebbe stato per me il porto sicuro nel cui seno trovare riparo.

E si arriva così a lunedì 31 luglio 2006. E’ il giorno dell’ecografia morfologica. Io sono ad Iglesias dalla sera precedente, non ho potuto chiedere un giorno di permesso, sono l’unico Ufficiale medico del mio Reparto, e così Marcella è dovuta andare sola con Flavia Marcella a visita. L’appuntamento è per le 11 del mattino, ma quel giorno ci sono molti parti cesarei ed il ginecologo non si libera prima delle 16 e 30. La bambina nel frattempo è stata affidata ai nonni materni.

Comincia quella che avrebbe dovuta essere un’ecografia di routine, ma che si trasforma subito in qualcosa di ben diverso: mi dirà poi Marcella che il nostro ginecologo, sempre gioviale e scherzoso, mentre osserva lo schermo dell’ecografo all’improvviso cambia umore, non sorride più, comincia ad insistere su un punto preciso, osserva, scruta, ricontrolla. Poi, dopo 20 interminabili minuti si ferma e dice alla mia povera sposa (povera Marcella, quante cose hai dovuto affrontare da sola. Ti amo più della mia vita cucciola!!) che il cuore è troppo spostato a destra, che intravede delle anse intestinali in torace, che sospetta un’ernia diaframmatica sinistra, che la situazione è seria, che il bambino non può nascere a Sassari, città sprovvista di un reparto di rianimazione neonatale e con una chirurgia pediatrica solo nominale, che occorre andar fuori, e precisamente a Genova, Ospedale “Gaslini” dove il nostro piccolo appena nato con parto cesareo, sempre che arrivi al parto e che sopravviva ai primi momenti di vita autonoma, dovrà essere intubato, addormentato portato in rianimazione e sottoposto all’indispensabile intervento chirurgico senza cui non potrebbe comunque vivere.

Tutto questo in pochi minuti, quasi di getto, in un fiume di nozioni, di spavento e di dispiacere (ci è molto affezionato il nostro ginecologo, e ci vuole bene. Non lo ringrazieremo mai abbastanza per aver fatto diagnosi prenatale e per averci indirizzato a Genova).

Marcella mi chiama al telefonino alle 17 e 30 e con una voce stanca (e ci credo, pensai prima di sapere, è lì da sei ore!!) mi dice che il bambino ha un problema grosso, un’ernia diaframmatica sinistra, che la situazione è grave, che bisogna andare a Genova.

La nostra vita era cambiata.

I primi minuti dopo la notizia ricordo di averli passati quasi in trance: ERNIA DIAFRAMMATICA SINISTRA. Cercavo di scavare nei miei ricordi universitari per trovare qualcosa che potesse aiutarmi ad inquadrare al meglio questa situazione, ma tutto non si può tenere a mente, io mi sono laureato nel 1988, mi ero iscritto cinque anni e mezzo prima a medicina ed embriologia è un esame del primo anno, quindi io l’avevo sostenuto nel 1983, ventitré anni prima. Troppi per potermi ricordare quella che era una delle numerose malformazioni poco frequenti che possono interessare un feto. Inoltre io sono specialista in malattie infettive e sono medico legale militare, entrambi campi non proprio affini all’embriologia!!

Ma qualcosa mi diceva che la situazione non era semplice. Riflettei sul fatto che se un emitorace è occupato dall’intestino allora il polmone di quel lato non può svilupparsi, perché non ha posto per espandersi, e quindi questi bambini possono andare incontro alla morte, una volta nati, per insufficienza respiratoria.

Mi sono attaccato ad Internet, ho cliccato le due parole orribili ERNIA + DIAFRAMMATICA su Google e mi sono immerso in 20 minuti di embriologia, fisiologia, patologia chirurgica pediatrica, neonatologia.

Avevo intuito bene: il 50% dei bambini affetti da ernia diaframmatica muore alla nascita per insufficienza respiratoria da mancato sviluppo di uno o di entrambi i polmoni, a seconda della quantità di intestino e/o fegato che, a causa della parziale o totale assenza del diaframma risalgono in torace. Ovviamente laddove anche il fegato è in torace e quindi entrambi i polmoni non hanno potuto svilupparsi la mortalità è del 100%.

Ma non bastava. Molti bambini erano colpiti da ipertensione polmonare nel polmone poco sviluppato, come se quell’accartocciamento di tessuto polmonare su se stesso impedisse al sangue arterioso di circolare liberamente all’interno dell’organo e questo rendeva infausta la prognosi anche per il 50% che sopravviveva alla nascita e giungeva all’intervento chirurgico (da farsi entro le prime 24-48 ore di vita), a causa di delicati squilibri circolatori che andavano a ripercuotersi sul cuore, che spesso non ce la faceva a vincere la resistenza incontrata nel polmone malformato, con conseguente quadro di scompenso circolatorio, peraltro resistente alle normali terapie mediche, tanto per gradire.

Inoltre l’intestino malrotato poteva anche non funzionare, potevano esserci malformazioni varie a carico dell’apparato digerente (fistole, atresie ed amenità varie) e/o cardiaco.

Per non parlare del polidramnios, ossia dell’impossibilità per il feto di bersi il liquido amniotico (cosa che è fisiologica) per ostruzione esofagea da compressione o per ripiegamento dell’esofago se anche lo stomaco fosse risalito in torace, con conseguente emergenza per bambino e mamma (Marcella?! No, questo poi no!!!)

Ho avuto conferma che l’ernia diaframmatica è una condizione rara: 1 su 3000 nati vivi (che bello sentirsi rari, ho pensato amaramente!)

Infine, dulcis in fundo, in circa 1/3 dei casi l’ernia diaframmatici è la spia di una trisomia gravissima (la 18) con conseguente prospettiva per il bambino di una vita racchiusa in pochi giorni o, nei casi più fortunati (fortunati? Pensai tra lo sconforto) massimo 7- 10 anni di sofferenza per poi comunque morire.

Insomma, in una parola è una brutta, bruttissima gatta da pelare.

A volte essere medici non è una bella cosa. Non puoi nasconderti nell’inconsapevolezza. Sai tutto, devi sapere tutto. E devi affrontare i tuoi fantasmi.

Come un automa sono salito dal mio Comandante, in breve gli ho spiegato la situazione e gli ho chiesto di poter partire subito per Sassari. Dovevo tornare a casa, per un giorno ma dovevo. Mi è stato concesso (quanto sono stati pazienti con me i miei superiori e l’Arma tutta!!! Sono fiero di farne parte, di indossare la divisa nera, perché sono in un’Istituzione di Uomini e Donne di cuore!! Grazie!!).

Con un coltello nel cuore sono partito alle 18 e 30 per Sassari dove, dato il traffico sardo e turistico del 31 luglio e la qualità delle nostre strade sono arrivato verso le 21 e 30.

Con Marcella ci siamo abbracciati senza parlarci per almeno cinque minuti. Poi abbiamo pianto insieme per un po’ (e meno male che la nostra bambina era già addormentata. Piccola Flavia Marcella: nonostante le nostre prudenze hai capito tutto sin da subito, hai pregato per il tuo fratellino, hai subito tante cose; a due anni. Ti amo figlietta mia!! Sei straordinaria!!).

Quella notte non abbiamo dormito. C’era da lottare, da combattere, non da arrendersi: questo bambino doveva nascere, noi genitori avevamo il dovere di farlo nascere nel posto migliore per lui, e subito dovevamo battezzarlo: avrebbe affrontato così le sfide che lo attendevano da figlio di Dio, da cristiano.

Il pensiero del battesimo mi diede pace. Riconfermai il mio proposito a Maria Santissima: questo mio figlio sarebbe stato consacrato a Lei comunque, o per le poche ore o giorni che avrebbe vissuto in caso di prognosi infausta, o per la sua intera vita ricca di giorni.

Il giorno dopo, primo agosto, compleanno della nostra bambina e quattordicesimo anniversario del nostro incontro e subitaneo fidanzamento (avvenuto nel 1992 quando io avevo compiuto 28 anni e Marcella appena 18) tornammo dal nostro ginecologo che ci diede il recapito di una collega del “Gaslini”, ecografista di terzo livello. La chiamammo: ci fissò il primo appuntamento per lunedì 21 agosto, con il risultato dell’amniocentesi (ancora da fare) da portare al seguito.

Il pomeriggio io dovetti ritornare ad Iglesias per riprendere il lavoro.

Cominciava il tempo dell’attesa, con tante ore per pensare, troppe forse, ma anche tante per pregare: quel Rosario che avevo cominciato a recitare quotidianamente da neanche tre mesi (e non per la gravidanza in corso, ci tengo a sottolinearlo) si rivelò la mia dolce ancora di salvezza.

Cominciai a girare su Internet e scoprii questo sito che raccontava la storia di Agnese Benedetta, una bimba che aveva superato l’intervento e cresceva sana e forte: nel leggere il racconto del papà Gianluca, immedesimandomi, piansi come un vitello.

Uno dei link del sito era La Quercia millenaria: vi andai, lessi le storie nella pagina delle testimonianze, le rilessi decine di volte in quei mesi (e ogni volta lacrime di gioia per chi ce l’aveva fatta e di dolore per chi invece era morto), le stampai, le rilegai facendone una specie di libro, annotandomi le frasi più coinvolgenti di tutti quei genitori, accomunati da malattie diversissime tra loro ma da un unico immenso dolore. DE TE FABULA NARRATUR mi ripetevo, queste storie parlano di te.

Credetemi quei venti giorni prima del primo viaggio a Genova sono stati in assoluto i più difficili della mia vita (Marcella sola  cinque giorni su sette a Sassari, io solo a 230 Km , l’ansia che l’ignoto suscita nell’uomo, l’immagine di questo figlio squarciato dai ferri chirurgici, che avrei potuto vedere da dietro il vetro di un reparto di rianimazione, ammesso che avesse potuto sopravvivere..)

Chiesi aiuto al Beato Papa Giovanni XXIII di cui sono devoto e che considero il più grande Papa degli ultimi 500 anni, composi una supplica chiedendogli con parole mie di aiutare mio figlio, lui il Papa dei bambini, lui che era andato a trovarli in ospedale, che la sera dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II nel celeberrimo “discorso della luna” aveva detto ai centomila radunati in Piazza San Pietro: “Tornando a casa troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa..Troverete qualche lacrima da asciugare..dite una parola buona, il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza.”

Venne eseguita l’amniocentesi: il bambino era cromosomicamente normale, un normale maschietto con i suoi 46 cromosomi carini carini. Geneticamente sano.

Un primo grande grandissimo punto a suo favore.

Domenica 20 agosto, affidata Flavia Marcella ai nonni, prendiamo la grande nave bianca e partiamo per Genova, dove lunedì 21 veniamo accolti al “Gaslini”. La collega ecografista effettua subito un primo controllo, conferma la diagnosi e ci dice che si, sarà dura, ma che comunque lo stomaco è sottodiaframmatico e che non si vedono malformazioni cardiache.

Mi si accende una luce: nei miei tours informatici (nel frattempo ero diventato un “erniodiaframmatologo” coi fiocchi!!) su Internet, in un paio di siti americani avevo letto che fattore prognostico favorevole poteva essere considerato il fatto di osservare al 5° mese di gestazione lo stomaco là dove doveva essere. Era il nostro caso! Il primo spiraglio di luce!

Non voleva dire molto, in fondo, ma era pur sempre una speranza.

L’ecocardiografista fetale confermò che il cuoricino di Pierfabrizio era perfetto.

Il nostro piccino insomma era sano come un pesce, ma il suo diaframma a sinistra non si era chiuso come avrebbe dovuto fare e ciò aveva permesso all’intestino di migrare in torace comprimendo il polmoncino sinistro. Aveva! “solo” questo che non andava (e non bastava? pensai io)

Ci fecero parlare anche con un chirurgo pediatrico, che ci snocciolò tutto lo scibile in negativo sulle ernie diaframmatiche: morte della metà dei bambini, complicanze pre-intra e post operatorie ecc. Non ci fece piacere sentirci dire che ancora oggi la metà degli affetti da questa malattia muore, ma i chirurghi sono fatti così, non sono mai molto ottimisti, e forse è un bene: se una persona è preparata al peggio poi affronta il meglio…meglio.

Il 22 ripartimmo per la Sardegna con una serie di cose da fare a domicilio: ecografia ogni settimana per scongiurare o quanto meno diagnosticare il più presto possibile un sempre possibile polidramnios da risalita in torace dello stomaco, ed altri controlli strumentali minori.

E con l’appuntamento per il parto per la terza decade di novembre, circa 20 giorni prima del termine naturale previsto, da regolo ostetrico, per il 16 dicembre.

Tornati a casa la vita riprende: io al lavoro ad Iglesias a curare i miei giovani allievi carabinieri e Marcella a casa (non lavora ancora) con la bambina (e meno male che i suoi genitori abitano nell’appartamento a fianco). Soli e lontani, ma spiritualmente uniti. Il gestore telefonico dei nostri cellulari si è fatto d’oro con noi in quel periodo.

Non è stato un periodo facile, affatto. Più si avvicinava la data più il timore si alternava alla speranza.

In tempi non sospetti, negli anni precedenti, avevo approfondito la mia spiritualità, e nei periodi bui che ciascuno sotto questo cielo attraversa, avevo sempre chiesto al Padre di aiutarmi ad accettare la sua volontà, qualunque fosse ed ero giunto ad una conclusione all’apparenza ovvia ma che nella vita pratica di tutti i giorni viene posta sempre in discussione, ossia che la fede non è una polizza di assicurazione che preservi il credente dal male del mondo. Tante volte nella mia professione di medico, specie quando ho dovuto comunicare diagnosi di una certa serietà, la prima reazione dell’ammalato era quasi sempre “Perché proprio a me?” Quelli poi che avevano la grazia della fede aggiungevano “Non ho fatto mai male a nessuno, sono praticante. Perché Dio mi vuole punire così?”

Non avevo mai saputo che rispondere. La risposta l’avrei trovata ai primi del mese di novembre del 2006 grazie alla Quercia millenaria. Ma non anticipiamo.

Ed ora ero io dall’altra parte della barricata, tramite quel mio figlietto che stava crescendo inconsapevolmente malformato nel grembo della mia sposa..

Ringrazio Dio perché, forte nella convinzione che c’è un ordine nel mondo che trascende le nostre possibilità di conoscenza e che “tutto è grazia” come scriveva Bernanos nelle ultime righe del suo capolavoro “Diario di un curato di campagna”, non ho mai chiesto  “Perché proprio a me?”.

Marcella in tutto questo periodo si è dimostrata più forte di me, non ha mai dubitato del fatto che avremmo potuto riportarci a casa il bambino sano e salvo, e non per un discorso di fede (lei ne ha molta ma ha con Dio un suo rapporto speciale che spesso rifugge da devozionismi e pratiche), ma perché lo sentiva in sé.

E in fondo se il cuore di una donna è un oceano di segreti, quello di una madre è un universo misterioso di sensazioni.

Intanto i giorni passavano. Tutto era predisposto per partire dalla Sardegna sabato 18 novembre per poter così far nascere il bambino la settimana successiva, l’albergo prenotato, il mio Comando aveva attivato il Comando Generale dell’Arma a Roma per farmi sostituire, quando giovedì 19 ottobre, nel corso di una delle solite ecografie di controllo a Sassari il nostro amico ginecologo informa Marcella che lo stomaco sta risalendo in torace, anzi è risalito. Questo significa che il rischio di polidramnios è altissimo. Si mette subito in contatto con Genova e da lì intimano di ricoverare Marcella o in subordine di metterla a riposo assoluto, di eseguire ogni due giorni i tracciati topografici (il monitoraggio fetale) e di raggiungere il “Gaslini” al più tardi il 30 di ottobre per poi monitorare in loco la gravidanza e cercare di far nascere il bambino non in emergenza e non prima della 36° settimana gestazionale, ossia a metà del mese di novembre.

Panico ed affanno, bisogna cambiare tutto, anticipare e partire venti giorni prima del previsto. Dopo i primi momenti di confusione riusciamo ad organizzare il tutto. Siamo pronti.

 Ed eccoci a domenica 29 ottobre. Con il morale non proprio eccelso alle 8 del mattino vado a messa nella nostra parrocchia a Sassari, a San Vincenzo. Alla preoccupazione per il viaggio imminente (abbiamo l’aereo alle 12 e 30 per Roma e poi da lì per Genova) si aggiunge il dolore di dover lasciare a casa Flavia Marcella. Io sono stato abituato a farlo: già lavoro non a Sassari e poi dal 2004 ho partecipato per l’Arma a due missioni all’estero, in Kosovo, di tre mesi ciascuna e ciò mi ha impedito di trascorrere i suoi primi due Natali con la mia bambina, ma per Marcella è il primo grande distacco dalla sua creatura, e madre e figlia sono legatissime.

E’ la trentesima domenica del Tempo ordinario e la liturgia della parola propone per la lettura il salmo 125: “CHI SEMINA NELLE LACRIME MIETERÀ CON GIUBILO. NELL’ANDARE SE NE VA E PIANGE PORTANDO LA SEMENTE DA GETTARE, MA NEL TORNARE VIENE CON GIUBILO, PORTANDO I SUOI COVONI” Possibile, mi sono chiesto, che sia un caso? Che proprio per oggi la Parola di Dio sembri profetizzare qualcosa che riguarda così da vicino esattamente noi? La cosa mi colpisce molto e mi rasserena. Tornato a casa ne parlo con Marcella, ma lei è così presa dal distacco imminente con la nostra bambina che quasi non ci fa caso.

Partiamo, tra le lacrime.

Dopo sette ore di viaggio e di attesa arriviamo a Genova e ci sistemiamo in albergo. Marcella non chiude occhio e piange quasi tutta la notte: la tensione nervosa degli ultimi mesi, tenuta a freno anche e soprattutto per rispetto alla bambina, adesso prorompe senza freni. Cerco di consolarla, la coccolo, le parlo, cerco di non piangere e verso le quattro del mattino ci assopiamo.

Il resto accade quasi in un fiato. I controlli fatti a Genova confermano che lo stomaco è fluttuante, ossia sale e scende dal torace, ma questo non pare preoccupare più di tanto. Il liquido amniotico è normale, Pierfabrizio  lo inghiotte bene, l’ecocardiografia fetale dimostra che il polmoncino di sinistra, seppur ovviamente piccolo, c’è, che ha il suo apparato circolatorio arterovenoso ed anzi, ci consola il collega cardiologo, è tutto perfettamente normale con un quadro anatomico che di solito in un ernia diaframmatica sinistra è raro vedere. Un altro spiraglio di luce, forse il più importante.

E si, perché se il polmone di sinistra ossia quello compromesso, funzionerà, e ci sono tutte le premesse anatomiche perché questo accada, si, sarà questione di tempo, ma senza altre complicazioni si può ipotizzare che il piccolo ha buone chances di farcela!!

Ringrazio il Signore per questo.

Nel frattempo, entrando nel sito della Quercia millenaria, di cui sono diventato socio, trovo la risposta a quella domanda che troppe volte mi ero sentito rivolgere in passato: leggo nella pagina degli ospiti la bellissima testimonianza di David, un ragazzo di 23 anni che, ammalatosi seriamente, invece di chiedersi “perché proprio a me?” rovesciando la domanda con un salto intellettivo coraggioso e rivoluzionario per questi tempi tutti dediti al benessere fisico ed al culto del corpo, si è chiesto senza timore “E PERCHE’ A ME NO?” Ho subito fatta mia quella frase, che andava a coronare il mio meditare dei mesi passati.

Sabato 11 novembre ci raggiungono in nave la nostra emozionantissima bambina e la signora Lucia mamma di Marcella. Non ce la siamo sentita di restare separati più a lungo, soprattutto adesso che a giorni la nostra famiglia avrebbe dovuto affrontare il momento della verità.

Lunedì 13 novembre Marcella viene ricoverata e mercoledì 15, alle ore 9 e 26 nasce Pietro Fabrizio. Io ero lì, in sala parto, grazie al fatto di essere medico (di solito non fanno assistere per un parto cesareo). Mi ero preparato preghiere e preghiere, ma al momento del dunque, quasi paralizzato dall’emozione, riesco solo a dire una frase “Signore, sia fatta la tua volontà”.

Lo tirano fuori, è quasi stupito di essere stato disturbato e strappato dal suo caldo nido, fa in tempo ad emettere due vagiti che rivelano stupore e rabbia che subito i due colleghi anestesisti rianimatori venuti lì per lui lo prendono in consegna, lo intubano, lo sedano lo osservano per qualche minuto.Uno dei due si rivolge a me dicendomi “Dalla prima impressione sembra un’ernia diaframmatica impegnativa: gli sto dando il 95% di ossigeno (N.B.il valore normale è 21%)”.

Poi spariscono di corsa con il piccino verso il reparto di rianimazione neonatale. Io per qualche ora sto vicino a Marcella, che comincia a soffrire per il taglio, ma gli avvenimenti incalzano: occorre compiere un altro gesto importante, anzi per me fondamentale: occorre battezzare quanto prima il bambino: vogliamo che divenga figlio di Dio in Cristo e che così affronti la sua battaglia.

Avevo già preso accordi con Padre Aldo il Cappuccino parroco del “Gaslini”, e così alle 16 e 30 dello stesso 15 novembre io e lui (Marcella non poteva muoversi) bardati di verde con gli speciali camici per visitatori entriamo nello stanzone della rianimazione neonatale e, tra macchine che suonano, infermiere indaffaratissime somministriamo il battesimo con sola acqua al piccolo Pietro Fabrizio Benedetto Paolo Maria, che giace lì sedato, pieno di tubicini, incosciente eppure bellissimo agli occhi miei.

E’ un battesimo quasi clandestino, nessuno degli astanti, troppo indaffarati a portare soccorso ai tanti piccoli degenti, nessuno si avvicina e si unisce alle nostre rapide preghiere. Eppure è un battesimo bellissimo, che non potrò mai dimenticare.

Mentre nei pochi minuti che mi sono concessi dopo il rito osservo la mia creatura, mi ritornano in mente alcuni brani delle lettere di San Paolo: quelle ai Corinzi (2Cor 12,8-10) “Ti basti la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. (..) Quando sono debole è allora che sono forte” e 1Cor 1,28, “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”

Il mio piccolo è lì, respira, combatte, piccolo fragile esserino, combatte, e combatte bene: la percentuale di ossigeno erogata è scesa adesso, otto ore dopo la nascita, dal 95 al 45% un bel segno. Ha superato il primo grosso ostacolo, la nascita, i primi atti del respiro, e soprattutto non si è instaurata la tanto temuta condizione di ipertensione polmonare. Insomma, potrà essere operato entro le 24-48 ore.

Esco finalmente sereno: qualunque cosa accadrà è un cristiano colui che affronterà la sua prova, con il suo battesimo ed i suoi cinque nomi, scelti uno per uno con un’intenzione particolare come gli avevo scritto al mio bambino in una lettera un paio di mesi prima:

Prima di andare via giro attorno all’edificio e vado nell’acquario, ossia nella stanza con la grande vetrata da dove si può vedere dentro il box 1, la stanza dove è ricoverato Pierfabrizio insieme ad altro sette otto bambini, i cui genitori mi circondano per farmi coraggio e formularmi gli auguri: non ci conosciamo, ma siamo accomunati da un’unica preoccupazione e da un solo pensiero: i nostri cuccioli. Nei giorni seguenti imparerò a conoscerli e con loro i loro bambini: Valeria, Francesco, Teresa, Lorenzo, i gemellini Asia e Matteo, Amelio, Giulia, Alex. (Alcuni sono ancora lì, altri sono tornati a casa. Qualcuno – ma non di loro – non ce l’ha fatta…)

Ringrazio tutti e a tutti dico “Siamo nelle mani di Dio, i nostri piccoli sono nelle sue mani.”

Poi vedo tante, troppe persone attorno al mio piccolo: il collega di guardia, due o tre infermiere e mi allarmo. So che l’ernia diaframmatica è tra le malformazioni una di quelle che maggiormente impegna l’equipe medica, perché interessa contemporaneamente tre dei quattro apparati vitali, il respiratorio, il digerente e il cardiocircolatorio.

Lo so, ma in quel momento non sono un medico, sono solo un papà preoccupato e sono solo con i miei pensieri. Marcella è nel suo letto di ospedale e la vorrei qui con me per darmi forza (lei appena operata, lei che non ha ancora visto il suo bambino!!)

Sto quasi per piangere, la tensione della giornata sta per giocarmi un brutto scherzo, ma sono lacrime di stanchezza non di disperazione. Flavia Marcella è con me: sfidando le ire delle infermiere la sollevo all’altezza del vetro per farle vedere seppur da lontano quel fratellino che inconsapevolmente ha così alterato la serena routine dei suoi giorni di bambina. Dice che è bello, che è tutto nudo e che è monello, perché dorme sempre.

Giovedì 17 novembre 2006. Dopo aver dormito con la bambina in albergo (non prima di aver pregato con lei per il fratellino), lasciatala alla nonna mi precipito al “Gaslini”. Non posso entrare dal piccolo, l’accesso è concesso (se non ci sono emergenze o ricoveri in corso) dalle 15 in poi, e solo tre genitori alla volta e per non più di 10-15 minuti, ma io voglio sapere come ha trascorso la notte. Cautamente chiedo alla segretaria del reparto che a sua volta chiede dentro. La risposta è neutra: “Stazionario”.

 Imparerò nei giorni seguenti che è una bella risposta: quando si è in rianimazione stazionario significa che non è peggiorato, ed è già qualcosa per chi ha bisogno di essere RI-ANIMATO (anche le parole hanno un peso, no?).

Vado da Marcella che con lo sguardo mi chiede notizie e la conforto dicendole che va tutto bene, per ora.

Adesso ci attende la grande prova dell’intervento chirurgico programmato per il pomeriggio. Alle 14 vado in rianimazione per il colloquio quotidiano con i parenti, un rito carico di pathos: I genitori di Teresa, una piccola prematura, mi fanno passare avanti, è il mio primo colloquio: Non li ringrazierò mai abbastanza per la delicatezza di quel gesto semplice.

Entro: la collega mi dice che durante la notte è un po’ peggiorato, ma che è normale nei primi giorni. Comunque il polmone di destra funziona egregiamente e verrà operato verso le 17. Parlo con le anestesiste, mi fanno firmare il consenso all’anestesia sottolineando che il rischio anestesiologico è altissimo, stiamo parlando di un neonato! Firmo (ovviamente), ripetendo anche a loro il mio leit motiv “Siamo, è nelle mani di Dio”. Stessa scena col chirurgo, stessa risposta da parte mia. Sono davvero sereno dentro e fuori (gli altri genitori me lo diranno nei giorni successivi).

Alle 17 e 30 Pierfabrizio viene operato lì in rianimazione. L’intervento dura due ore. Al termine le anestesiste mi dicono che non hanno avuto il minimo problema e che si sono limitate all’essenziale. Anche il chirurgo esce soddisfatto, distrutto ma soddisfatto: sono quasi le 20 quando lo arpiono sulle scale estorcendogli le prime impressioni (positive). Ed anche questa è fatta! In due giorni questa creatura ha affrontato e superato due prove titaniche, Maria Santissima, il Beato Giovanni XXIII e Sant’Antonio gli sono vicini!

Riesco a vederlo dal vetro, anche se non è vicinissimo: mi sembra un piccolo Gesù: due aghi gli bucano i polsi, il drenaggio sul fianco destro come il colpo di lancia al costato del Cristo in croce, le braccia allargate, un sensore rosso ad un tallone: gli manca la corona di spine e i segni della flagellazione, ma per il resto il suo corpicino testimonia in piccolo una “Passione” una sofferenza intensa.

Me ne commuovo.

Sabato 18 novembre accompagno Marcella con la sedia a rotelle dal bambino: è la prima volta che vede Pierfabrizio, e lo deve vedere sedato pieno di tubi, incerottato. Ma lei si dimostra forte, molto e (quasi) non piange.

Il resto è presto detto: il decorso post operatorio è un continuum di miglioramento, è un indecifrabile tempo di Grazia quello che avvolge la nostra famiglia.

Nessuna complicanza, nessuna infezione portata dai tubi, cateteri venosi centrali, drenaggio. Dopo due giorni è meno sedato e comincia a guardarsi intorno, curioso come tutti i cuccioli. Il 27 novembre, il giorno del mio 43° compleanno, Pierfabrizio viene estubato e comincia a respirare in totale autonomia. Il 30 gli tolgono catetere urinario e drenaggio. Il lunedì successivo 4 dicembre viene traferito in chirurgia pediatrica, comincia l’alimentazione per bocca, tutto va per il verso giusto tanto che ai miei occhi si faceva vita concreta quanto promesso nel salmo 90 TU CHE ABITI AL RIPARO DELL’ALTISSIMO, che così procede: “egli ti libererà dal laccio del cacciatore, (…)ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio, (…) la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza (…) Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra ma nulla ti potrà colpire (…) poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora, non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. Egli darà ordine ai suoi Angeli di custodirti in tutti i tuoi passi: Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede. Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi” E finisce: “Lo salverò perche a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura, lo salverò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza”.

Stava accadendo proprio questo.

 E finalmente, giovedì 14 dicembre viene dimesso tra la nostra gioia e la soddisfazione dei colleghi che, ci hanno confidato, raramente in un caso di ernia diaframmatica, hanno osservato un decorso così lineare e veloce e così, a 29 giorni dalla nascita e 28 dall’intervento, carichi di bagagli e di felicità, la sera ci imbarchiamo sulla grande nave bianca e dopo una serena notte di navigazione in un mare piatto come l’olio (cosa rara in dicembre, come eccezionale è stato il clima per tutto il periodo genovese: caldo, poca pioggia, un lungo dolcissimo temperato autunno, il più mite degli ultimi 120 anni hanno scritto..)  il giorno successivo festeggiamo il primo complemese del piccolo a casa nostra, dove Flavia Marcella, nel frattempo rientrata in Sardegna con la nonna, ci accoglie emozionatissima e felice.

E domenica 17 dicembre 2006 possiamo tutti insieme andare alla messa delle 11 nella nostra chiesa di San Vincenzo, dove il cerchio della Parola di Dio, come se ci stesse aspettando, chiude con noi il discorso iniziato quasi due mesi prima: è la terza domenica di avvento, quella che la Chiesa definisce in latino “laetari”, ossia della gioia e le letture sono infatti di gioia:

Sofonia canta “Gioisci figlia di Sion, esulta, Israele. Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico (…) Il Signore tuo Dio è in mezzo a te, è un salvatore potente”

Il salmo responsoriale, tratto da Isaia ribadisce: “Ecco, Dio è la mia salvezza.”

Ma è la seconda lettura che riservava, come già il salmo il 29 ottobre, il messaggio più chiaro e diretto, quasi sconvolgente per la “coincidenza” (Padre Pio, a chi gli diceva che molte cose sono coincidenze rispondeva: “E chi dispone le coincidenze?”): la lettera di San Paolo ai Filippesi 4, 4-7 così ci diceva: “ Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. (…) Non angustiatevi per nulla, MA IN OGNI NECESSITA’ ESPONETE A DIO LE VOSTRE RICHIESTE CON PREGHIERE SUPPLICHE E RINGRAZIAMENTI; E LA PACE DI DIO, CHE SORPASSA OGNI INTELLIGENZA, CUSTODIRA’ I VOSTRI CUORI E I VOSTRI PENSIERI IN CRISTO GESU’”

De te fabula narratur, ci siamo detti.

Abbiamo capito che la Grazia di Dio è veramente gratis, senza prezzo, che benefica tutti anche noi, una famiglia normalissima, né bigotta né esaltata, composta di persone che peccano settanta volte al giorno. Siamo tutti matite nelle mani di Dio, disse la Beata Madre Teresa di Calcutta, strumenti di un suo piano o progetto che ci sfugge, ma che c’è e che al contempo ci lascia liberi. Non siamo automi nelle mani di un Dio puparo, ma Persone, figli con la dignità e la libertà dei figli.

Il 28 dicembre, giorno dei Santi Innocenti Martiri, ossia il giorno di tutti i bambini morti troppo presto, di cui la Quercia è dolente ma forte testimone, e che la Quercia proteggono, abbiamo completato il rito del battesimo nella nostra parrocchia di San Vincenzo. E contestualmente abbiamo consacrato i nostri due bambini alla Madonna Santissima. E’ stato un momento toccante, credetemi: io e Marcella, con voce commossa abbiamo recitato la preghiera di consacrazione da noi stessi composta

Il 28 dicembre è stato scelto apposta, perché anche Pierfabrizio è stato ed è un martire ossia un testimone (questo in greco vuol dire martire) dell’amore di Dio che per lui ha previsto di dare “giorni alla vita” e non “vita ai giorni” (grazie per questa frase, che da sola vale un’enciclopedia, a Emanuela e Giovanni genitori di Samuele) come invece in tanti altri dolorosi casi, e porterà per tutta la vita sul suo corpo le cicatrici fisiche dei suoi primi giorni.

E adesso vive con noi, mangia vorace, dorme e cresce.

Non tutto è passato: la vigilia di Natale l’abbiamo trascorsa in ospedale a Sassari per un vomito ostinato che mi aveva fatto temere un’occlusione intestinale (complicanza tipica di tutti gli operati in addome) con rischio di dover intervenire chirurgicamente di nuovo. E invece poi era una gastroenterite da virus parainfluenzale.

In questi giorni abbiamo combattuto contro una iniziale bronchiolite, bella rogna per tutti i neonati, figurarsi per chi ha un polmoncino e mezzo, ma ancora una volta il suo piede non è inciampato sulla pietra.

Spero che questa nostra storia sinora a lieto fine, il racconto di cinque incredibili ed irripetibili mesi possa dare speranza a chi sente di essere disperato, a quei genitori che, come noi si sono trovati, si trovano e si troveranno catapultati in una realtà sino a quel momento sconosciuta, angosciante e drammatica.

Adesso che ho terminato mi accorgo che, dal proposito iniziale, che prevedeva un racconto stringato ed essenziale, la nostra storia si è trasformata in un qualcosa di più corposo, ma ho pensato che ritmare anche il tempo dell’attesa sia importante, perché è forse il tempo più difficile da far trascorrere.

C’è, e se c’è qual è il significato di questa vicenda? Credo fermamente che un significato ci sia, che si debba ricercare nell’efficacia della preghiera, e, soprattutto nel riconoscere che noi creature umane abbiamo dei limiti, non possiamo capire tutto, specialmente dei pensieri e delle vie di Dio che “sovrastano le nostre vie quanto il cielo sovrasta la terra”, Egli rivela al Profeta Isaia.

E che il nostro Dio che ci ha fatto liberi e a sua immagine, quella libertà la ama anche per sé, compresa la libertà di elargire o meno grazie, segni e miracoli proprio perché le sue vie non sono le nostre vie.

Non so ovviamente cosa ci riserverà il futuro, non so se vedrò diventare grande Pierfabrizio o meno, ma so che questo periodo resterà nel mio animo indelebile.

Ringrazio Gianluca e Sabrina, perché tramite il loro sito mi son sentito meno solo in quei difficili caldi giorni dell’agosto 2006, perché la loro iniziativa è davvero un’ispirazione dello Spirito Santo, una boccata di ossigeno dopo una lunga apnea. Li abbraccio, e abbraccio Livia la loro primogenita, e Agnese Benedetta, la piccola creatura che ha dato origine a tutto questo.

E li ringrazio perché tramite loro ho scoperto la Quercia Millenaria.

E ringrazio Sabrina e Carlo per averla voluto fondare la Quercia Millenaria , sotto le cui fronde noi tutti dolcemente riposiamo, e nel terminare voglio spezzare una lancia per la classe medica e non perché io sia uno di loro, anzi, ma perché in questa nostra storia nessun medico mai, e dico mai ci ha proposto di interrompere la gravidanza (ovviamente non avremmo seguito il consiglio), di non dare alla nostra creatura neanche una chance. Nessuno, né a Sassari né a Genova dove anzi per i bambini, per tutti i bimbi ammalati che il “Gaslini” ospita lì hanno quasi una venerazione, un benefico accanimento terapeutico che altro non è che Amore, magari laico, ma amore.

Dio ci protegga sempre, tutti.

E ricordando il caro motto francescano auguriamo a tutti PACE E BENE.  

FABRIZIO e MARCELLA ANTILICI

Pierfabrizio

ALLEGO UN SONETTO DA ME COMPOSTO A FEBBRAIO SCORSO PER IL MIO BAMBINO.

Tornando indietro ho rivisto il cielo

brillare di un azzurro senza fine,

reso più dolce dalle ormai vicine

terre dei miei ricordi che lo sgelo

dell’anima accarezza.  E in ogni stelo

che in questi campi s’agita di brina

scorgo quasi una gioiosa divina

lacrima d’amore. Non son più solo.

Porto con me nel suo scialle vermiglio

il frutto di così gravosa attesa

da poco finita. Porto mio figlio.

E osservo incredulo ogni suo sbadiglio

riempirmi tiepido la casa accesa

dal suo respiro che ci fa famiglia.

                          (Iglesias, 12 febbraio 2007)

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