LA
STORIA DI GIULIA
1)
Il
concepimento
2)
Ecografia
della 20° settimana
3)
Ospedale
Buzzi
4)
La
Scelta
5)
Visite
di Controllo
6)
La
Nascita
7)
I
primi istanti
8)
La
stanza 301
9)
Terapia
Intensiva Neonatale
10)
L’Operazione
Chirurgica
11)
Il
primo mese
12)
Il
primo abbraccio
13)
Momenti
d’Allarme
14)
L’allattamento
15)
La
seconda parte
16)
Finalmente
a Casa
17)
Curiosità
18)
Finale
Il
concepimento
Come
spesso succede in questi casi, nella coppia, è la femmina che prende
l’iniziativa.
Mia
moglie un bel giorno decise che venne il momento di dare un seguito al
primogenito.
Poi
a casa si passa dalle giornate a “non farlo mai” alle giornate del
“facciamolo di continuo”.
Il
maschio, prima si trova ad implorare di avere un rapporto sessuale, quasi sempre
negato, per poi passare ad implorare dei momenti di giusto riposo, ma sempre di
implorare si tratta.
Per
chi non è pratico, la vita dello stallone non è delle più semplici.
Come
avvenne con il ns. primo figlio GIACOMO, anche per il secondo mia moglie ha
utilizzato la stessa metodologia che illustro.
Il
primo mese, si richiede un’attività blanda, in pratica si fa quando si
riesce.
Il
secondo mese già si richiede un martellamento più assiduo.
Il
terzo mese si passa all’applicazione scientifica della ricerca del periodo più
fertile, e iniziano ad insorgere dei primi insulti verso lo stallone tacciato di
poco rendimento.
Poi
per fortuna l’obbiettivo è raggiunto e si ritornerà beatamente alla classica
vita famigliare del “non farlo mai”.
Quando
siamo certi che mia moglie è incinta siamo intorno a 8 dicembre del 2004,
giorno del mio quarantesimo compleanno.
Facciamo
le stesse cose del primo figlio.
Ci
rivolgiamo allo stesso Ginecologo che opera all’ospedale di Carate Brianza,
che già ci avvisa che è ancora troppo presto per averne la certezza e ci da
appuntamento per le 20 di sera della vigilia di Natale.
Premetto
che mia moglie era già in apprensione, perché, a causa della presenza di cisti
non proprio sotto controllo, pensava di pregiudicare tutta la faccenda.
Il
giorno 24, il dottore ci confermò che il concepimento fu raggiunto e ci diede
appuntamento per le solite visite ed esami di rito da effettuare nei mesi
successivi.
Ecografia
della 20° settimana
Arriviamo
al primo momento infelice, dove alla classica prima Ecografica, lo stesso
dottore che la fece 4 anni prima, ci comunica la prima notizia negativa:
Premetto
che la diagnosi la diede alla fine di tutta la visita ecografica che durò circa
una mezz’ora.
Infatti,
come prima notizia ci comunicò il sesso:
una
femmina
Non
ne avevamo discusso più di tanto (infatti mia moglie mi accusa che con me non
riesce proprio a discutere), ma devo ammettere che speravo fosse proprio una
femmina e l’emozione mi colse con uno certo stupore alla comunicazione del
sesso.
Ma,
subito dopo, il dottore manifestò dei segnali di preoccupazione, che noi
onestamente non riuscimmo a decifrare chiaramente.
Ci
comunicò che il feto era affetto da Ernia Diafframmatica senza classificarla in
modo preciso, ma salutandoci con l’affermazione:
portatela
avanti con relativa tranquillità
Quindi
uscimmo dall’ospedale con una sensazione di contentezza per il fatto che fosse
femmina mista a delusione per la diagnosi di ernia.
Io
come ernia conoscevo solo le forme di ernia al disco o giù di li che vengono
comunemente affrontate, ma non capivo come era possibile che già al 4° mese si
evidenziasse una cosa del genere in un feto così piccolo.
Poi
dato che menzionò la possibilità di un intervento chirurgico, pensai ai banali
interventi di ernia.
Comuque
ci avvisarono che per approfondire la situazione ci avrebbero chiamato a breve
per un’ecografia di secondo livello con un altro dottore.
Dopo
2 o 3 giorni ci contattarono per l’ecografica di secondo livello, e poiché
non eravamo particolarmente in allarme, si recò esclusivamente mia moglie alla
visita, risparmiandomi il viaggio di rientro da Milano mia sede di lavoro.
Questo
fu un errore, rimarcato dallo stesso dottore, perché in quella sede comunicò a
mia moglie tutto ciò che di negativo sarebbe potuto succedere alla bambina che
portava in grembo.
In
pratica si passò da una versione addolcita e confusa del primo incontro ad una
versione catastrofica enunciata dal secondo dottore.
A
proposito della comunicazione, e da questo momento ne avremo di continue con i
medici, devo evidenziare che spesso ci siamo trovati in difficoltà.
Ammetto
che la problematica è complessa ed evidentemente non si ha la possibilità di
fare un congresso specifico per ogni genitore sulle situazioni da affrontare, ma
i vari approcci avuti con i dottori anche a volte totalmente contrastanti tra
loro ci hanno spesso mandato in confusione.
Forse
per la necessità di farsi comprendere nel tempo più veloce, poiché sono
sempre presi da una moltitudine di attività, le comunicazioni a volte
pervenivano come delle vere mazzate.
Infatti,
un allarme dato al momento, se spiegato dettagliatamente può essere recepito
nel giusto modo, ma se buttato li nel mentre, ti mette in una condizione di
instabilità che può perdurare negli anni.
Ne
parleremo poi con lo svolgersi della storia.
Mia
moglie uscì dall’ecografia di secondo livello con una diagnosi terribile. La
conferma di un’Ernia Diaframmatica. Una situazione rara quanto grave, che dava
poche possibilità di sopravvivenza alla bambina.
Il
dottore si limitò ad evidenziare tutto ciò che di negativo comportava la
situazione e ci dirottò a controlli più specifici presso l’Ospedale Buzzi di
Milano, perché in Brianza non erano predisposti per affrontare tali
problematiche.
Ci
fissò subito un incontro al “Buzzi” di li a breve.
La
frase con cui ci lasciò il dottore fu:
“predisponetevi
alla situazione più negativa da affrontare”.
Queste
erano le possibilità:
La
gravidanza probabilmente non arriverà a termine.
Ci
potrebbero essere altri inconvenienti oltre all’Ernia.
Ospedale
Buzzi
Arrivammo
all’Ospedale Buzzi intorno alla 22° settimana, per effettuare tutte le
diagnosi specifiche, e arrivammo già con tutte
le negatività recepite in Brianza e con la consapevolezza di non portare a
termine la gravidanza, pensando che non avremmo avuto alternative all’aborto.
Era
la prima volta che entravamo al Buzzi, poi avremmo conosciuto ogni meandro dello
stabile, infatti frequenteremo quasi tutti i piani sia dell’Ospedale che del
reparto Ambulatoriale di Diagnostica, dal Parcheggio alla Mensa, dalla
Cappellina alla Banca.
Al
Buzzi ci recammo all’Ambulatorio Prenatale del Reparto Guaita (palazzo C).
Incontrammo
una dottoressa che poi non avremmo più incontrato, infatti era anch’essa in
cinta e in dirittura di arrivo del parto.
Subito
abbiamo capito che eravamo in un ambito molto specializzato dove si era
perfettamente a conoscenza delle problematiche che dovevamo affrontare, a cui
aggiungemmo anche il positivo impatto estetico, derivante dallo stabile nuovo e
perfettamente curato e la relativa organizzazione del Piano,e il tutto ci mise
per lo meno nell’ottica che avremmo avuto chiarimenti sufficienti e
definitivi.
Descrivo
brevemente il colloquio avuto con la Dottoressa, che notò immediatamente la ns.
rassegnazione.
Ci
spiegò che sebbene la malattia fosse molto rara, al Buzzi ne conoscevano molto
bene le caratteristiche e che non tutto era perduto a priori.
Ci
spiegò molto chiaramente le caratteristiche principali del problema, anche se
c’erano ancora moltissime cose da definire e, successivamente capimmo che
molte cose non le avremo mai sapute finchè non sarebbero accadute ed ancora
oggi viviamo nella speranza che non avvengano (ovviamente quelle negative).
Infatti,
l’Ernia Diaframmatica si può presentare in moltissime forme, più o meno
critiche, ed i problemi che si dovranno affrontare quando il bimbo nascerà,
alla 22° settimana, sono assolutamente sconosciuti.
I
miei pensieri prima dell’incontro erano rivolti all’imminente perdita della
bimba e su come avrebbe potuto reagire mia moglie all’aborto, come l’avrebbe
superato e, se successivamente poteva
mai pensare alla possibilità di avere altri figli.
In
pratica ero già orientato a come sarebbe stato possibile cancellare la
situazione in corso.
Le
informazioni che ci diedero furono:
Non
tutti i bambini muoiono di ernia, anzi molti sopravvivono ed anche bene.
L’importante
era da subito fare l’amniocentesi per verificare se ci fossero altri danni
cromosomici e genetici in accompagnamento all’ernia, in modo da avere tutti i
riferimenti possibili prima di decidere se proseguire o abortire.
Il
problema era che i tempi erano ristretti, infatti, i risultati preliminari
sarebbero stati disponibili solo dopo 10 gg, in tempo ancora per il limite della
24° settimana imposti per l’aborto, ma i risultati definitivi sarebbero
andati oltre.
Comuque
i dottori dissero che entro la data prevista avremmo avuto le informazioni
necessarie e determinanti (al 90%) per affrontare una scelta che si potesse
basare su dati reali, poi sappiamo che tutti gli esami possibili non bastano mai
per dare una certezza definitiva.
Uscimmo
con un nuovo appuntamento di li a 10 giorni.
Quindi
passammo dallo stato di rassegnazione per una chiusura negativa della faccenda
verso una situazione aperta a più scelte, scelte ovviamente tutte cariche di
incertezze e portatrici di apprensioni al limite della tensione.
Si
dice sempre che le cose finchè non accadono, non ci si pensa, ed è proprio così,
una volta dentro, le situazioni si vivono molto più intensamente. Scegliere se
portare avanti o meno una vita è una scelta importante non avendo la visione di
ciò che possa accadere successivamente.
La
Scelta
Dopo
alcuni giorni ci comunicarono che i primi risultati escludevano altre patologie
e nell’incontro prestabilito al Buzzi, anche se tutta la diagnostica non era
ancora disponibile, ci confermarono
che gli esami andavano bene.
Ormai
era la 24° settimana e la decisione che prendemmo fu di proseguire.
Cominciammo
già in quell’appuntamento ad approfondire la questione, e ci fu un colloquio
con un altro dei dottori del reparto Prenatale.
Avremo
modo di conoscerli tutti ed ognuno si relazionava nel modo che riteneva più
idoneo all’occasione. Di tutti ricordiamo comunque un’estrema disponibilità
e sempre la ns. sensazione era di avere di fronte delle persone estremamente
competenti.
Era
sempre un incontro preliminare e quindi non particolarmente approfondito.
Tutti
ovviamente concordavano nel fatto che l’Ernia Diaframmatica era una cosa molto
delicata e, certamente il fatto che per ns. figlia fosse congenita, la rendeva
fra le più complesse.
Nei
vari incontri successivi e durante il ricovero avremo modo di conoscere sempre
più e nuovi (cosa che generava in genere molta preoccupazione) dettagli.
I
primi risultati dissero che era un’Ernia Diaframmatica sinistra e anteriore.
Il
dottore ci accolse così: la situazione è grave, ma non delle peggiori, dicendo
che era una bella ernia (sottointendendo che non era una delle peggiori).
Infatti,
era anteriore e visibile (alcune sono nascoste e non visibili fino al termine),
poi era a sinistra quindi dalla parte dello stomaco (mentre dalla parte del
fegato pare sia peggiore).
Poi
disse, che essendo una femmina, c’erano più possibilità, perché superano
meglio statisticamente le situazioni più difficili.
Durante
il ricovero abbiamo conosciuto altri 3 casi come il nostro, guarda caso le 2
femmine rimasero ricoverate 3 mesi, mentre i 2 maschi uscirono nel giro di 3
settimane, smentendo la statistica, ma forse i dottori intendevano che ernie
cosi complesse se affrontate da maschi la sopravvivenza è più critica (infatti
i 2 maschietti che abbiamo
conosciuto erano sostanzialmente sfiorati dall’ernia).
Il
dottore quindi ci organizzò i successivi incontri, che iniziarono mensilmente
per poi passare ad ogni 15 giorni.
Conoscemmo
la caposala e le infermiere del reparto (tutte cortesi e disponibili oltre che
sempre incasinatissime), e la caposala, solo successivamente, abbiamo saputo
essere la moglie di un ns. ex portinaio di condominio, nonché abitante nella
stessa casa di mio cugino.
Visite
di Controllo
Dopo
aver deciso di proseguire, cominciammo i fitti incontri di diagnostica, sempre
al 2° piano del padiglione Guaita.
La
prassi era sempre la stessa, ci si recava più o meno all’orario prefissato,
si aspettava la solita oretta, poi si effettuava la visita e si prendeva
appuntamento per la volta successiva.
Nelle
attese si assisteva al via vai di persone, dottori, infermiere, pazienti,
c’erano donne in cinta di tutti i tipi e molte di loro provenivano da fuori
Milano e Lombardia.
Noi
vivemmo le visite di controllo sempre con molta ansia, nella speranza che la
situazione non peggiorasse.
Eravamo
preoccupati che non si estendesse il problema al diaframma e che rimanesse
limitato alla parte sinistra.
Devo
ammettere che, sebbene abbiamo fatto molte visite ecografiche con i vari
esperti, alcune anche con macchine tridimensionali, le informazioni ricevute non
ci chiarivano esattamente cosa sarebbe potuto succedere al parto.
La
situazione comunque non peggiorò in modo particolarmente critico, se non per
l’aumento pericoloso del liquido amniotico che la bimba non era in grado di
smaltire a sufficienza.
Si
resero quindi necessarie 2 aspirazioni di liquido (con le stesse modalità della
amniocentesi solo molto più durature) una addirittura di circa 1 ora, dove mia
moglie dovette rimanere coricata con un ago gigante nella pancia con le
infermiere che si alternavano ad aspirare con una pistola più liquido in
eccesso possibile.
Un
momento molto emozionante fu, quando utilizzarono la macchina tridimensionale
per effettuare l’ecografia verso il settimo mese, dove fu possibile vedere
sullo schermo già il viso di ns. figlia (ci diedero anche una foto), viso che
pareva somigliare di molto al fratello maggiore.
Un
dottore ci disse che dalla foto la bimba aveva le labbra da baciatrice.
Il
mandato dei medici fu sempre quello di portare la gravidanza più avanti
possibile in modo da permettere di avvicinarsi alla scadenza naturale prevista
verso la metà di Agosto.
Verso
la fine, ci fu l’incontro con i vari Primari per spiegarci e prepararci
all’evento.
Sebbene,
come detto, abbiamo fatto varie visite e colloqui interlocutori, a quello che
successe nella realtà non arrivammo comunque preparati sufficientemente perché
successero un sacco di avvenimenti che ci colsero alla sprovvista.
Forse
sarà anche un comportamento normale per lo staff medico di non addentrarsi più
di tanto nei particolari, e forse è la tipologia stessa della problematica che
lascia innumerevoli possibilità a rendere complesso un possibile tracciato
futuro.
Devo
comunque ammettere che noi arrivammo al parto con un sacco di informazioni,
mentre i ns. compagni di sventura provenienti da Palermo, ad esempio, arrivarono
pensando ad un intervento quasi normale e assolutamente impreparati a ciò che
effettivamente accadde.
L’incontro
di preparazione all’intervento con i Primari di Chirurgia (Pansini) e di
Terapia Neonatale Intensiva (Lista) ci tracciarono delle ipotesi che elenco
brevemente.
La
faremo nascere qualche giorno prima della scadenza
(si fissò per 1 Agosto).
Prepareremo
il gruppo di persone per l’evento, che in linea di massima prevederà il parto
durante il giorno per avere la massima disponibilità delle persone (siamo anche
in Agosto).
La
bimba non sarà operata immediatamente, ma prima sarà stabilizzata con
l’intervento del gruppo di rianimazione.
Ci
spiegarono che diversamente dagli anni precedenti, molto era dedicato alla fase
di rianimazione sia in preparazione dell’operazione, che dopo l’operazione
stessa.
L’operazione
ci venne descritta dal Chirurgo come una cosa quasi nella norma, si incide, si
verifica la situazione, si riporta gli organi al loro posto e si ricuce il
diaframma oppure se ciò non è possibile si inserisce una protesi (un patch) di
goretex per toppare il tutto.
Poi
si seguirà passo passo il tutto.
Quindi
capimmo che la prima parte in Terapia Intensiva era fondamentale per il successo
finale.
Il
dott. Lista ci disse che sebbene lui stesso sarebbe stato in ferie, non ci
sarebbe stato alcun problema perché erano sufficientemente strutturati e ci
lasciò con questa bella frase:
sebbene
ci siano delle criticità, con alte probabilità di mortalità, affrontiamo
l’evento con fiducia e ci diede il 50 % delle probabilità di riuscita.
Fino
a quel momento, comunque avevamo la sensazione di essere nelle mani migliori che
potevamo auspicare per ns. figlia, visti i medici e le attrezzature della
struttura ospedaliera.
Poi
quando abbiamo dovuto vivere nella realtà le situazioni successive, qualche
dubbio si insinuò.
La
Nascita
Alla
fine i dottori presero la decisione di far nascere ns. figlia il 1 Agosto 2005,
ben 15 giorni prima della scadenza prevista, anche se sempre avevano affermato
che era meglio arrivare più vicino possibile alla scadenza naturale.
Dai
calcoli dell’ultima ecografica dissero che la bimba era di un peso di circa 3
chili e ritennero idoneo anticipare, anche se poi quando nacque il peso reale fu
di 2,750 kg.
Inoltre
sempre ci dissero, che l’ideale era affrontare il parto in modo naturale perché
sarebbe stato meglio per la bimba, poi invece decidendo di anticipare era
evidente (almeno per noi) che ci sarebbe stato un parto cesareo.
Per
come si dovevano svolgere le operazioni d’intubamento e di assistenza con il
personale preposto che era in attesa dell’evento, per noi era chiaro che il
tutto doveva essere gestito tramite il cesareo, per non trascurare la
particolarità della situazione da affrontare.
Poi
mia moglie sempre aveva avvisato i medici che anche nel primo parto si
intervenne con il cesareo a causa della ridotta dilatazione e che
presumibilmente anche per questo secondo sarebbe stato lo stesso.
Ma
i dottori ci sorpesero e come spesso capita, si intestardiscono tentando di
applicare il loro credo anche di fronte all’evidenza.
Di
prima mattina ci presentammo al pronto soccorso del Buzzi che ci accettarono e
destinarono al reparto Ostetricia.
I
2 giorni seguenti al ricovero li vivemmo come un vero e proprio incubo.
Noi
eravamo già in ansia per le incognite legate alla nascita e fummo trascinati
negli eventi senza renderci conto delle situazioni, un po’ fidandoci dei
medici e un po’ per ns. mancanza di tranquilllità.
Ci
predisposero il letto 301 al terzo piano, poi ci chiamarono per la sala parto al
primo piano dove iniziammo il percorso che doveva concludersi con la nascita.
La
dottoressa che ci accolse, ci comunicò a sorpesa che intendeva procedere con un
parto naturale, (15 giorni prima della scadenza !!), ci disse:
faremo
una bella induzione al parto con un gel e aspettiamo che esca oggi oppure
aspetteremo tranquillamente domani.
Tutto
quello che di buono vedemmo al Padiglione Guaita durante la diagnostica, nel
reparto di Ostetricia parve non esistere, sembrava effettivamente di essere in
altro luogo.
La
gentilezza del personale qui era di tutt’altra forma, se dobbiamo escludere
qualche ragazza giovane e probabilmente in stage senza paga che si dimostrava
accogliente.
Capivamo
che il lavoro in ospedale non era fra più remunerati e che le mansioni svolte
oltre che delicate comportano un dispendio elevato (quindi onore a chi lo svolge
con passione al di là delle difficoltà che riscontra), ma anche in
considerazione del ns. stato d’animo ci eravamo aspettati una situazione più
rilassata rispetto a ciò che avremmo vissuto.
Inoltre,
confrontavamo la precedente esperienza avuta con il primo parto all’Ospedale
di Carate Brianza, dove ad esempio anche per il papà erano in vigore delle
regole ferree.
Qui
invece il reparto era praticamente aperto a tutti, a qualsiasi ora e senza
particolari controlli.
Ci
impressionò anche la possibilità di accesso alla sala parto sita al primo
piano, dove era facile l’ingresso e ci si poteva tranquillamente aggirare nei
corridoi a fianco di donne urlanti.
Clamoroso
fu il caso di quando si presentarono alla reception della sala parto sita
proprio in centro al piano, 2 extracomunitari tipo Pakistani, che belli conciati
con borse e sacchetti appresso sono tranquillamente entrati fino alle infermiere
lamentandosi che il comune non voleva anagrafare il figlio appena nato,
sventolando un foglio di carta dove presumibilmente c’erano i dati rilasciati
dall’Ospedale. Cortesemente furono dirottati all’ufficio anagrafe
dell’ospedale. Devo ammettere, che a posteriori, successe anche a me la stessa
cosa, infatti quando mi recai al comune per la dichiarazione di nascita, ci
rendemmo conto allo sportello che sul foglio di rilascio dell’Ospedale
erroneamente avevano dichiarato la nascita un mese prima.
Ritornando
alla ns. situazione, come detto, facemmo le visite di rito nella mattinata e il
programma era di iniziare il processo di induzione a partire da un orario
particolare che era il più idoneo.
Attendemmo
nella stanza la chiamata che arrivò con 2 ore di ritardo rispetto all’orario
prestabilito (“tanto va bene lo stesso” fu il commento).
Il
Gel fu siringato a mia moglie, con bruciore e fastidi aggiunti in omaggio a
quelli che ognuno può ben comprendere fra quelli già di norma presenti durante
un parto.
Ovviamente
io ne ho solo avuta la percezione, ma dalle grida che provenivano all’interno
della sala parto c’era da spaventarsi. In quella sede abbiamo sentito delle
urla che mai avremmo potuto concepire (considerato che un parto lo avevano anche
già affrontato).
Il
Gel non ebbe il minimo effetto ed anche nella sessione serale, non ci fu alcun
risultato, cosicchè ci rimandarono alla giornata successiva con noi preoccupati
del fatto che in teoria ci doveva essere allertato un gruppo di persone in
attesa dell’intervento, ma ci tranquillizzarono che nulla cambiava con la
giornata successiva e che tutti erano a disposizione.
Il
giorno dopo si ricominciò con le pratiche di induzione, altro Gel e altri
monitoraggi.
Le
contrazioni aumentavano, i dolori anche, ma la dilatazione era sempre nulla.
Putroppo
la Ginecologa che ci seguiva era la stessa della giornata precedente e solo nel
tardo pomeriggio ci rendemmo conto che la dottoressa stava combattendo una
battaglia personale contro ogni sensata regola, ma giusto perché doveva far
nascere la bimba senza cesareo.
Non
abbiamo mai capito le motivazioni di tale persona all’ostinazione del
perseguimento del parto naturale sottoponendo una donna ad un martoriamento
inutile, un atteggiamento che avrei potuto comprendere se il dottore fosse stato
un uomo, ma da una donna e per giunta madre che a sua volta ha partorito, a
posteriori ci sembrò una cosa folle.
Infatti
la lista fu:
trattamento
di induzione ancora con il gel (bruciori e quant’altro),
monitoraggi
e visite interne continue e richieste di consulti a tutti quelli che capitavano
in stanza,
per
finire con l’applicazione di elettrodi alla testa della bimba per stimolare e
indurre chissà che cosa,
con
dilatazioni a distanza di ora dell’ordine di millimetri quando erano
necessarie una decina di centimetri per il parto naturale.
Noi
eravamo talmente nel marasma che non riuscimmo a porre un freno a questo iter
(anche perchè fra la stanchezza di 2 giorni e il pensiero a quello che poteva
succedere e sempre ascoltando chi diceva che lo si faceva per il bene della
bambina), fino a che arrivò in tarda serata il sostituto della dottoressa che
dapprima, forse per non sconfessarla interamente attese anch’esso del tempo,
ma alla fine prese la sensata decisione di procedere con il cesareo.
Gli
avvenimenti successivi ci portarono presto a dimenticare dell’accaduto in sala
parto, ma mia moglie nei 3 mesi che sostammo all’Ospedale non volle nemmeno
per sbaglio incrociare la dottoressa che ci segui quei 2 giorni, perché gli
veniva una innata voglia di strozzarla.
Quindi,
verso le 20 il dottore si predispose per il cesareo, ma ebbe degli imprevisti
che ritardarono l’intervento con mia moglie che ormai era allo stremo con
dolori allucinanti e gratuiti, vista poi la scelta finale.
Il
tutto aggravato dal cambio di turno fra le infermiere, composto da 4 garampane
tutte presumibilmente con decenni di servizio presso l’ospedale e che avevano
una disponibilità e una sensibilità che rasentava l’indisponenza.
Alla
fine ci predisponiamo per l’intervento, e con grande sorpesa, mi è permesso
vedere il tutto attraverso la vetrata che divide un corridoio antistante la sala
operatoria e la sala dove mi trovo io.
Cosa
che non mi sarei mai aspettato, visto che nel precedente ospedale (sempre con
cesario) ciò era vietato.
Assisto
alla preparazione di mia moglie all’intervento, con anestesia spinale e
assisto anche all’operazione stessa. Una cosa veramente impressionante e a
posteriori penso che avrei potuto allenarmi con i programmi di Sala Parto
trasmessi su Sky.
Per
me sono momenti di grande tensione, ho di fronte il dottore che opera, e mia
moglie che mi manda degli sguardi e sorride. Le preoccupazioni sulle condizioni
di mia figlia cominciano ad assalirmi perché oramai siamo vicini alla resa dei
conti.
Praticamente
passo tutto l’intervento a piangere e per molti giorni successivi il pianto mi
coglierà di continuo.
Alle
22 del 2 Agosto 2005 nasce mia figlia GIULIA.
I
primi istanti
E’
nata Giulia, con un cesareo alle 22 della sera, mentre fuori incombeva un
temporale niente male.
Doveva
essere un parto controllato e per di più durante la fase diurna per gestire al
meglio gli interventi di assistenza, ed alla fine ecco che me la fanno uscire di
notte, con temporale incluso.
Ci
sarà il personale specializzato preposto? Se devono intervenire urgentemente,
lo faranno di notte? E se va via la corrente per il temporale?
Queste
erano le mie preoccupazioni imminenti ed io non ero tranquillo proprio per
nulla.
Appena
estratta la bimba, intervennero un gruppo di dottoresse e infermiere (circa 4
persone) per dare assistenza a Giulia. Di li a qualche minuto venne trasferita
dalla sala parto al primo piano e trasportata al quinto piano in Terapia
Intensiva del reparto Neonatale.
Durante
quel piccolo tratto fino all’ascensore mi si diede l’opportunità di vederla
e oltre a me la potè intravedere anche mio fratello che stava attendendo in
sala d’aspetto.
Fu
un trasferimento rapido e mentre entravano in ascensore mi dissero di recarmi più
tardi presso il 5° piano.
Ovviamente
io stavo piangendo.
Mia
moglie intanto fu ricucita e parcheggiata fuori dalla sala parto, per circa 2
ore come da prassi dopo un cesareo.
Secondo
le disposizioni ospedaliere, infatti doveva sostare in osservazione in prossimità
della sala chirurgica, rimasi con
lei fino a quando la lasciai per andare in terapia intensiva come da accordi.
Mia
moglie mi disse che non potè vedere la bambina, perché doveva essere intubata
e trasportata al più presto in terapia intensiva, mentre lei doveva essere
ricucita.
Il
dottore al momento della nascita disse che la bimba era nata con la camicia,
infatti era tutta ricoperta da una peluria bianca, chiamata appunto camicia
bianca, e disse che ciò era di buon auspicio.
Dopo
parecchio tempo mi permisero di entrare in terapia intensiva, ma non potei
vedere Giulia perché erano ancora in corso le operazioni di assistenza.
La
mia presenza era richiesta esclusivamente per la compilazione dei moduli per i
permessi al ricovero con relativi consensi.
La
dottoressa e il chirurgo mi diedero alcune indicazioni di massima sulle
successive evoluzioni. La bimba dapprima sarebbe stata intubata ed assistita in
modo da normalizzare e stabilizzare la situazione, ed un eventuale intervento
sarebbe avvenuto, se tutto proseguiva bene, solo nella giornata successiva.
Prima
di uscire chiesi informazioni sulla situazione alla ricerca di buone notizie e
mi dissero che tutto era sotto controllo, ma che ogni previsione sugli sviluppi
futuri era prematura, concludendo con queste parole:
“
vede in questi casi di ernia congenita già rilevata alla prima ecografia
morfologica, ogni valutazione viene effettuata dopo l’operazione, perché il
reale stato del polmone si potrà verificare solo al momento, infatti se la
compressione del polmone è già in atto prima della 20° settimana potrebbe
essere anche in una situazione tanto critica da non essere possibile il
ripristino delle sue normali funzionalità ”.
Ci
rimasi di sasso, perché proprio non sapevamo che c’era anche la possibilità
che non potesse essere proprio utilizzabile il polmone, e di questa evenienza
non s’era mai parlato.
Al
che io chiesi “ e se non fosse recuperabile “, la risposta fu “ in questo
caso non ci sarebbero speranze ”.
Tornai
da mia moglie, oramai ritornata in stanza 301,e la preoccupazione era molta e mi
accingevo a trascorrere la notte sulla sedia a fianco di mia moglie
nell’attesa degli eventi. Ma con sorpesa ciò mi fu vietato perché il
regolamento impediva a chiunque di soffermarsi in camera durante la notte.
Dopo
un timido tentativo di discussione e con il pensiero ad altre situazioni mi
convinsi a rientrare a casa.
La
stanza 301
Questo
capitolo è dedicato alla permanenza di mia moglie nella stanza 301 sita al
terzo piano, camera occupata dal 1 Agosto, giorno del ricovero fino a 5 giorni
successivi al parto.
Come
già detto il reparto di Ostetricia non è stato l’ambiente più accogliente
dell’Ospedale, con le infermiere di stanza spesso poco disponibili (sempre ad
eclusione delle giovani dottoresse e infermiere che fanno praticantato).
La
caratteristica delle infermiere ordinarie che operano nei reparti di degenza è:
sono
sempre in numero ridotto,
quando
le cerchi non le trovi mai,
se
le chiami con il campanello di solito arrivano incazzate,
più
sono vecchie e più sono incazzate.
Ho
già scritto che il reparto era un porto di mare, con gente che va e viene a
qualsiasi orario, inoltre il 3° piano è anche meno agevole per la gestione dei
bimbi, infatti la nursery è al piano di sotto e per le mamme era un continuo
salire e scendere in ascensore con le cullette dei bimbi. Un ascensore
frequentatissimo soprattutto in orario di visite. Era normale trovarsi in
ascensore una culletta con un bimbo di 1 o 2 giorni tranquillamente insieme a
visitatori di ogni razza e condizione, questo quando nel precedente ospedale il
bimbo ricoverato poteva avere contatto esclusivamente con il padre e bardato di
camice e mascherina.
Faccio
un esempio, un cinese poteva arrivare dal suo paese di origine il giorno prima e
il giorno successivo essere tranquillamente in ascensore con tuo figlio appena
nato, dico cinese perchè l’Ospedale Buzzi è il riferimento naturale della
comunità cinese residente nei dintorni. Infatti l’ospedale mette a
disposizione anche dei traduttori per i cinesi.
In
sequenza, durante la ns. permanenza nel letto a fianco, abbiamo incontrato
dapprima una ragazza romena che aveva la particolarità di dormire nello stesso
lettino con il bimbo appena nato (e anche questo ci lasciò perplesso), poi
arrivò una ragazza italiana di Affori che partorì il giorno successivo un
bimbo e dopo soli 2 giorni uscì con sollievo di mia moglie, perché mi disse
che non aveva mai sentito persona umana russare come lei.
Infine
arrivò una ragazza moldava che era in osservazione per problemi durante la
gravidanza.
Una
notte successe anche una cosa curiosa, verso la mezzanotte arrivò
un’infermiera con una culletta con dentro un bimbo e la piazzò nella stanza,
e mia moglie dovette litigarci prima di convincere la stessa che il bimbo non
era il loro, visto che la ns. bambina era ricoverata in terapia intensiva,e la
giovane moldava era solo al quinto mese di gravidanza.
Alla
fine dei 5 giorni mia moglie non gradendo la permanenza in reparto Ostetricia,
scelse di lasciare il reparto e di preferire fare la spola tra casa e terapia
intensiva, sebbene gli proposero, visto il ricovero in ospedale della figlia, il
prolungamento della degenza di un altro paio di giorni.
Terapia
Intensiva Neonatale
La
mattina successiva alla nascita, cominciammo a prendere conoscenza con quella
che sarebbe stata la ns. seconda casa per il periodo in cui rimase ricoverata
Giulia.
Il
reparto era al quinto piano e i corridoi d’accesso erano delimitati con delle
porte di ingresso aggiuntive che venivano aperte nella fascia oraria prevista
dalle 9,00 alle 21,00.
Per
entrare nel reparto vero e proprio, si doveva indossare dei camici verdi e
soprattutto lavarsi attentamente le mani.
L’ambiente
era decisamente confortante, se non per il fatto stesso di esserci ricoverati,
ma sembrava di essere in un reparto scollegato dall’ospedale, infatti qui
vigeva il silenzio rispetto
all’affollamento sugli altri piani, e le infermiere erano in un numero più
elevato, inoltre erano visibili pure i dottori, esseri in via di estinzione
presso gli altri reparti.
Eravamo
quindi fiduciosi, sia per le considerazioni fatte sopra sulla struttura che per
le persone che lavoravano alla Terapia Intensiva Neonatale, anche se per le
prime settimane, come ci disse, il primario non era presente ma in ferie.
Poiché
mia moglie era impossibilità a muoversi,la mattina successiva al cesareo, toccò
a me andare in solitaria a vedere per la prima volta Giulia su al quinto piano.
Affrontare ciò da solo mi metteva ancora più agitazione.
Il
reparto all’interno era così strutturato:
all’ingresso
vi erano 3 locali molto ampi che fungevano da nido, locali che davano visione
direttamente sui corridoi attorno, dove i parenti e amici potevano vedere i
bimbi, dato che l’ingresso era esclusivo per i genitori,
poi,più
avanti c’era un locale grande, destinato alla terapia intensiva vera e propria
con le postazioni messe in verticale una dietro l’altra ed in genere occupate
da incubatrici per bimbi prematuri, locale di cui veniva data parziale visione
sul corridoio tramite opportune tende,
ed
in fondo come ultimo locale, un spazio più ristretto destinato in genere ad una
sola postazione, inibito completamente alla vista esterna, dove non abbiamo mai
capito se era il posto destinato alle situazione più complesse, tant’è vero
che ns. figlia era proprio in quest’ultimo stanzino.
Sebbene
già mi aspettassi una visione non delle migliori, l’effetto fu devastante,
infatti Giulia era in una culletta speciale, distesa supina, intubata in un modo
particolare che descriverò successivamente e con 10 macchinari collegati.
Chiesi
ai dottori come fosse la situazione, e mi dissero che la bambina era in una
condizione stabile, una condizione indonea in previsione dell’operazione che
infatti era già in fase di preparazione. Mi dissero che fin dal primo momento
della presa in carico e successivo intubamento non si erano avute particolari
criticità, e il fatto che si fosse immediatamente stabilizzata e mantenesse
tale condizione, doveva essere visto come un fatto molto positivo.
Ora
non rimaneva che aspettare l’operazione per fare gli accertamenti necessari e
sperare che le condizioni degli organi fossero nella condizione idonea per
cominciare il duro percorso verso la guarigione.
Firmai
tutte le carte necessarie all’operazione,operazione che si svolse intorno alle
ore 13.
Ci
dissero di attendere l’esito nella ns.stanza, e che ci avrebbero avvisato.
Tornai
a questo punto da mia moglie riferendogli ciò che avevo visto e sentito
attendendo l’esito dell’operazione.
L’Operazione
Chirurgica
L’attesa
nella stanza era snervante, ed io ero timoroso nello spostarmi su al quinto
piano, per la paura di ricevere delle brutte notizie da solo.
L’operazione
si sarebbe svolta direttamente presso il reparto di terapia intensiva neonatale,
poichè diversamente da qualsiasi altro intervento, che in ospedale in genere
viene affrontato nell’apposita sala chirurgica, questi bimbi vengono operati
direttamente nella propria culletta, vista l’impossibilità di movimento data
dalle macchine a cui sono collegati, macchine che soprattutto nelle prime ore di
vita è sconsigliabile modificarne la configurazione.
Come
già ci dissero,le problematiche inerenti all’Ernia Diaframmatica, venivano
gestite con metodologie innovative rispetto a qualche anno addietro, metodologie
condivise con le esperienze provenienti da tutto il mondo occidentale (anche se
applicate ad ognuno con particolari variazioni), e probabilmente queste
portavano a far pendere la bilancia più dalla parte dei bimbi salvati rispetto
a quelli che non ce la facevano (ovviamente mi riferisco ai casi più complessi
come poteva essere il nostro).
Comunque,
dopo un paio di ore di attesa mi convinsi ad andare alla ricerca di
informazioni, e mentre mi recavo al quinto piano, incontrai proprio il chirurgo
che aveva effettuato l’operazione (era il primario che già incontrammo per
l’incontro preparatorio alla nascita).
In
questi casi, come primo riferimento si guarda l’espressione del volto e le
prime parole che il dottore proferisce per intuire già come sono andate le
cose, perché ovviamente io non avevo il coraggio di chiedere proprio nulla.
Il
dottore era parecchio provato, ma il volto era disteso e quindi chiesi come era
andata, la risposta fu che era andata bene, lui era personalmente soddisfatto e
che stava proprio venendo da noi per relazionarci sui particolari
dell’operazione.
Entrati
nella stanza ci spiegò alcuni dei dettagli (altri non li sapremo mai) di come
si svolse l’operazione.
Ci
disse che la situazione si prospettò da subito molto complessa, notarono che
praticamente tutto il diaframma di sinistra era inesistente, si era sfilacciato
completamente generando un erniamento di tutti gli organi verso l’alto.
Il
dottore era molto provato, perché, oltre alla lunghezza stessa
dell’operazione, dovette affrontare l’intervento direttamente al reparto,
senza usufruire della situazione climatica della sala chirurgica (che per chi ha
la fortuna di non esserci mai entrato, sappiate che la sala chirurgica rimane a
delle temperature veramente basse).
Ci
descrisse che si dovette quindi recuperare tutti gli organi risaliti come
ovviamente lo stomaco, ma anche l’intestino e la milza, e che furono
riallocati nella loro sede naturale.
Poi
si dovette provvedere alla chiusura del diaframma, che non potendo essere
ricucito quello naturale dovette essere sostituito da una pezza di goretex.
L’affrancamento
di detta pezza non fu delle più semplici, infatti se per la parte più esterna
il dottore potè tranquillamente agganciarsi alle costole, per la parte più
centrale disse che aveva dovuto fare particolare attenzione per non andare ad
intralciare l’aorta perché altrimenti ci sarebbero state delle grosse
complicazioni.
Preferì
quindi un affrancamento più leggero da quella parte.
Ovviamente
alle ns. domande sul fatto che la pezza potesse resistere per sempre e che non
si dovesse più intervenire il dottore si dimostrò fiducioso, anche se non
poteva garantirlo (cosa che poi purtroppo si verificò).
Ci
confermò comuque la sua piena soddisfazione soprattutto in base alle difficoltà
riscontrate, e la sua gentilezza nel comunicarcele ci mise in un ottica
speranzosa.
Il
problema è che il chiururgo si era limitato a risolvere i problemi di
carrozzeria, sanando le malfunzioni fisiche riscontrate e rimettendole nella
configurazione più idonea, ma per il motore e tutte le sue componenti da fare
funzionare al meglio la palla veniva ripassata ai rianimatori ed alla terapia
intensiva che dovevano lavorare con il materiale a disposizione.
A
me personalmente sorpese sentire il dottore raccontare tutte le cose che fece
con quelle mani grosse su un corpicino piccolo come quello di una bimba di 2,750
kg e le difficoltà che dovevano essere state trattate, anche se a suo tempo ci
descrissero queste operazioni ormai come operazioni di normale svolgimento.
Nel
pomeriggio dopo l’operazione caricai mia moglie su una sedia a rotelle ed
andammo a trovare Giulia su in Terapia Intensiva per verificare la reale
situazione di ns. figlia.
Il
primo mese
Dopo
che Giulia venne operata, cominciò il suo e il nostro percorso presso il
reparto al quinto piano, dove ad ogni bambino ricoverato è permesso di ricevere
esclusivamente la visita dei genitori durante la fascia oraria 9 – 21.
Ai
bimbi è associato un numero alla culletta ed il nostro è l’8 (il mio numero
preferito essendo nato l’8 e in genere dico anche il mio numero fortunato).
Il
numero serve anche per avere la disponibilità di un armadietto per le borse e
la gestione dei camici da indossare ogni qualvolta si accede alle stanze. Stanze
che devono essere il più possibile protette da contaminazioni esterne.
La
regola era di indossare il camice (e la mascherina se ammalati) e di lavarsi
sempre bene le mani prima di entrare nei locali della terapia intensiva.
Giulia
era in fondo al piano, per arrivarci bisognava attraversare tutto il locale con
le incubatrici e dove in genere i genitori non c’erano quasi mai.
Io
la ritrovai nella stessa condizione di quando l’avevo lasciata prima
dell’operazione (rimase per 10 lunghi giorni così).
Era
distesa nella sua culletta, con il tubo in trachea e completamente paralizzata
dai farmaci.
I
dottori ci confermarono che l’operazione era andata bene e che ora
cominciavano i trattamenti di recupero.
Una
caratteristica di Giulia fu che, anche nei primi giorni, quelli più critici, la
sua condizione generale si mantenne sempre stabile, infatti ad ogni ns. domanda
sullo svolgersi della situazione, i medici oltre a non sbilanciarsi mai in modo
approfondito, usavano risponderci che era stabile e noi la prendevamo sempre
come una notizia positiva, anche se l’attesa che le condizioni migliorassero,
con il trascorrere dei giorni ci lasciava molto perplessi.
Noi
ovviamente dipendevamo unicamente dalle comunicazioni dei dottori e delle
infermiere, senza avere la minima conoscenza tecnica, comunicazioni che spesso
si riducevano al minimo indispensabile, perché in definitiva i genitori anche
se avevano il permesso di stare nei locali, non sempre erano ben tollerati, dato
che nel reparto c’era sempre moltissimo da fare e tutti erano sempre di corsa.
Al
Buzzi, permettono la presenza dei Genitori anche in terapia intensiva neonatale,
perché come ci dissero, si vuole fare partecipi i Genitori il più possibile
alle condizioni dei bimbi che prima o poi dovranno portare a casa e a cui
dovranno essi stessi prestare attenzione.
Effettivamente
l’esperienza in Ospedale e l’addestramento sul campo ci fu fondamentale per
proseguire relativamente tranquilli nella gestione casalinga dell’assistenza.
Mi
riferisco in modo particolare a mia moglie, perché se fosse dipesa da me la
vita di mia figlia, non sono come sarebbe potuta andare e certamente non me
l’avrebbero consegnata come fu a suo tempo.
In
pratica nei 3 mesi di permanenza in Ospedale, mia moglie avrebbe potuto aspirare
al ruolo del Primario, mentre io al massimo avrei potuto fare il barelliere o il
responsabile della spazzatura.
Ritornando
alla nostra presenza in reparto, noi eravamo presenti tutti i giorni per circa
12 ore e nel limite del possibile eravano sempre in cerca di notizie su nostra
figlia, e spesso eravamo mal sopportati dai Dottori, anche se facevano rapide
apparizioni, ma soprattutto dalle infermiere che invece erano molto presenti e
sempre in zona e quindi potevano sentirsi sotto osservazione dai genitori.
Ciò
ovviamente dipendeva molto dalle persone stesse e, una volta individuate le
persone più disponibili alla comunicazione, ci si comportava di conseguenza,
chiedendo più informazioni a quelle più disponibili e facendo più attenzione
con quelle più critiche.
Anche
con i dottori sapevamo di interagire con alcuni molto disponibili e con altri
che ci liquidavano al volo o con termini medici che ci lasciavano perplessi.
Inoltre
a volte alcuni non ci sembravano nemmeno molto convinti delle proprie
affermazioni, mentre a volte alcuni si sbilanciavano anche troppo tracciando
scenari apocalitici, mentre altri erano positivi in modo esagerato.
In
pratica, sul fronte delle comunicazioni eravamo completamente in balia del
reparto, l’unica certezza era la verifica reale sul campo della bimba e delle
sue reazioni giorno per giorno.
Solo
che, nei periodi come i primi 10 giorni in cui la situazione non si sbloccava,
pensate un poco come ci si poteva sentire.
E
per fortuna che spesso non conoscendo le precedenti esperienze ci accontentavamo
dei pochi appigli che ci venivano dati quali “la bimba è stabile” perché
ad esempio fra gli altri 3 casi a cui assistemmo nel periodo di ricovero nessuno
rimase collegato al ventolino per così tanti giorni come Giulia. In un caso ci
fu un bimbo che rimase solo poche ore, mentre un altro che rimase solo 1 giorno,
che ovviamente ci faceva piacere per lori stessi, ma nello stesso tempo eravamo
preoccupati per la situazione di ns. figlia e un poco invidiosi della loro
condizione molto meno critica.
Tornando
alle condizioni di Giulia dopo l’operazione, il problema principale era in
questo momento la situazione del polmone sinistro rimasto da subito compresso
dalla risalita dello stomaco.
Effettivamente
durante l’operazione i dottori presero conoscenza dell’effettiva riduzione
del polmone, ma per fortuna fu diagnosticata la possibiltà di poterlo fare
funzionare in modo autonomo.
Per
fare questo si doveva provvedere all’espansione del polmone, espansione che
non avrebbe mai potuto portarlo alle dimensioni naturali, ma tanto da permettere
la sopravvivenza della bimba.
Per
fare ciò, fra tutti i macchinari collegati, quello più importante in questa
prima fase era il cosidetto “Ventolino”, anche se per dimensioni poteva
essere tranquillamente nominato ventolone. I Medici ci dissero che con questo
strumento innovativo, che aveva come terminale un grosso tubo inserito in
trachea, si effettuava un trattamento molto invasivo che trattava il polmone
come un potente lavaggio e ne permettava la propria espansione.
Produceva
anche una certa rumorosità, perché le frequenze immesse erano molto alte (non
mi ricordo i numeri precisi, ma di molto superiori ai ventolini in
convenzionale), e le stesse frequenze generavano dei leggeri ondeggiamenti sul
corpo della bimba (ci dissero che gli stessi movimenti generati erano di aiuto
alla situazione polmonare).
Purtroppo
il tubo di collegamento era di tipo rigido e in pratica la bimba non aveva modo
di poter essere disposta in posizioni differenti da quella originale, e da solo
questo poi portò alla generazione di una lacerazione delle cute dietro alla
testa, lacerazione che ebbe la sua complicazione nei giorni successivi, anche
perché la bimba non si poteva comunque spostare dal lettino (se non erro la
potemmo prendere in braccio la prima volta a quasi un mese di vita) e la
morbidezza dei tessuti della testa rendevano problematica la ciccatrizzazione
della ferita.
La
ferita sulla testa era l’ultima cosa che preoccupava i dottori al momento,
anche se noi già pensavamo che sarebbe rimasta permanente, e possiamo
confermarlo attualmente, che sebbene sia coperta dai capelli, ogni volta che mia
moglie la vede commenta che sarà una delle cose che Giulia gli rinfaccerà da
grande.
Lo
scopo del ventolino, coadiuvato dalle varie terapie, era quello di inibire la
respirazione naturale della bimba, perché ci dissero che altrimenti Giulia
respirando in autonomia avrebbe sovrautilizzato il polmone sano portandolo sotto
stress ed in pratica disattivando il polmone schiacciato che si sarebbe potuto
atrofizzare, rendendo vano un qualsiasi recupero.
Mentre,
questo lavaggio polmonare inibiva la respirazione naturale e con il movimento
sussultorio aiutava l’espansione.
Noi
di continuo, chiedevamo ai dottori quando avrebbero potuto staccare il ventolino
e la risposta era più o meno la stessa: “lo terremo attacato fino a quando
sarà necessario” e poi la solita frase che le condizioni generali erano
stabili.
Pur
non capendone un bel nulla, eravamo comuque molto preoccupati della massiccia
dose di farmaci necessari per supportare questa terapia e non vedevamo l’ora
che arrivasse la bella notizia, che avrebbe dato una svolta netta alla
situazione, invece tornavano nella nostra zona di riferimento a fissare come
ebeti la bimba immobile nel proprio lettino con il rumore di sottofondo del
ventolino, tipo un generatore/compressore in forma lieve, ma perennemente
presente. Inoltre dopo qualche giorno uscì anche un’affermazione dei Dottori
del tipo che ovviamente non si poteva pensare di continuare all’infinito con
il ventolino, perché abusandone c’era anche la possibilità che il polmone
stesso potesse in un certo senso “scoppiare” se portato ai limiti della
sopportazione o comuque riportare dei danni irreparabili.
Esattamente
dopo 10 giorni dalla nascita, una mattina arriviamo all’Ospedale come al
solito e troviamo la bella sorpresa, con Giulia che non era più collegata alla
macchina principale.
Ovviamente
fu un momento accolto con gioia da parte nostra, anche se i dottori da subito
calmarono i nostri entusiasmi (è sempre meglio volare bassi in questi momenti),
infatti ci comunicarono che non poteva ancora considerarsi una situazione
definitiva e che vi era anche la possibilità di ritornare alla configurazione
iniziale (cosa che poi comunque non avvenne).
Non
abbiamo mai saputo, se lo scollegamento del ventolino fu determinato dal massimo
dei giorni di collegamento possibili, oppure se avevamo raggiunto le giuste
condizioni per passare alla fase successiva, o come spesso avviene se fosse
stata una scommessa che Giulia doveva affrontare.
Da
quel giorno iniziò il lento e difficoltoso percorso del recupero delle
funzionalità vitali di Giulia, che in quel momento erano essenzialmente legate
alla fase respiratoria.
La
fase successiva al ventolino, prevede di continuare con la respirazione
assistita, ma attraverso uno strumento meno invasivo rispetto al precedente. I
medici lo chiamano ventolino in convenzionale, e prevede il solito tubo in
trachea. Solo che questa macchina permetteva a Giulia di cominciare a gestire in
autonomia la propria respirazione, e cioè quando Giulia respirava da sola la
macchina interrompeva l’assistenza, altrimenti fungeva da aiuto e si
sostituiva alla respirazione stessa.
Noi
eravano li ad osservare gli interventi sonori della macchina che evidenziava la
mancanza di saturazione e contava le respirazioni della bimba.
Non
potevamo ancora assistere personalmente Giulia, sebbene iniziasse una lenta
diminuzione delle dosi di sedativi, ma era ancora completamente assente.
Insomma
erano i primi respiri che Giulia effettuava con il proprio polmoncino. Ora si
doveva controllare come progrediva la situazione. Non conosco le statistiche in
merito sugli altri bimbi, ma noi dovemmo resistere altri 20 giorni attaccati al
ventolino in convenzionale, che a posteriori ci sembrarono un’eternità.
La
cosa bella del convenzionale era che rispetto al precedente faceva uso di tubi
più morbidi e flessibili, che permettevano una certa mobilità della bimba,
riuscendo finalmente a modificare leggermente la propria postura, sebbene fosse
costantemente inchiodata alla propria culletta.
Durante
questa seconda fase (passati i primi giorni concentrati sull’unico punto del
distacco del ventolino) abbiamo potuto constatare tutte le criticità su cui i
dottori stavano già lavorando.
Ecco
la lista dei problemi:
Ovviamente
il problema principale rimaneva il polmone sinistro,che una volta espanso doveva
dare le risposte attese.
Poi
c’era il problema del cuore, che oltre ad essersi spostato a destra causa la
risalita a sinistra dello stomaco, doveva essere monitorato in quanto la forte
terapia lo aveva messo sotto stress. Infatti dissero che ci fu un ispessimento
delle pareti.
Poi
c’era il problema del polmone destro, quello buono, ma anch’esso comunque
schiacciato dal cuore spostatosi a destra.
Poi
c’era il problema degli altri organi risaliti, quali la milza e l’intestino
e lo stesso stomaco, che durante l’operazione furono riposizionati sotto il
diaframma, ma nessuno poteva dare certezza del loro corretto funzionamento in
quanto non nati nella loro sede originaria.
Poi
c’era il problema del travaso di liquido presente nei polmoni, che in un primo
momento sembrava interessare soprattutto il polmone destro, tanto che vi fu
richiesto un drenaggio tramite un piccolo intervento effettuato direttamente dai
dottori della terapia intensiva per aspirare il liquido in eccesso che non
riusciva ad essere smaltito da solo.
Successivamente,
anche se spesso se ne prospettava l’uso, non ce ne fu bisogno di altri
drenaggi.
Poi
c’era da porre attenzione ad eventuali infezioni derivate dalla persistente
applicazione delle flebo/cateteri applicati a Giulia ed in particolare il tubo
utilizzato per l’alimentazione che passava dal braccio per andare sotto la
spalla. Il catetere fu mantenuto per circa 1 mese (tempo massimo applicabile) e
una leggera infezione si presentò, ma i medici la presero per tempo e curata
tempestivamente per cui non portò a particolari criticità. Inotre dopo il
primo mese non fu più necessario reimpiantare il catetere per
l’alimentazione, ma si proseguì con le flebo classiche, più aggiuntivi
esterni.
Insomma,
il primo mese passò essenzialmente con noi ai margini della culletta di Giulia
senza poter effettuare praticamente nulla, eravamo li che osservavamo i monitor
collegati, le infermiere che di continuo cambiavano Giulia e sostituivano gli
alimenti e le medicine e con i dottori che di continuo facevano prelievi del
sangue (quasi 1 al giorno i primi giorni), le lastre all’addome (anche 2 al
giorno i primi giorni), piccoli interventi e quant’altro.
Una
delle cose particolarmente sgradevoli che giornalmente le infermiere
effettuavano, era l’aspirazione del ristagno biliare formatosi a causa
dell’operazione.
Veniva
calato dal naso un sondino nasograstico e una volta sceso al punto giusto, si
provveva all’aspirazione del ristagno.
Quella
del sondino nel naso sarà una caratteristica di Giulia durante la sua
permanenza all’ospedale, tanto che dovemmo pure gestirlo anche a casa.
Il
primo abbraccio
Durante
questa seconda fase ci furono i primi momenti belli, che mostravano il
progredire di nostra figlia, come ad esempio lo spostamento fisico della bimba
dalla prima saletta singola in fondo, verso l’interno del salone più grande
insieme alle incubatrici. Sebbene nella realtà si fosse spostata solamente di
pochi metri (perché era appoggiata alla vetrata che divideva dalla saletta
precedente) solo il fatto di avvicinarsi all’uscita ci mise di buon umore,
infatti i bimbi in genere passavano dai reparti più intensivi e più lontanti e
si muovevano verso il nido dove rimanevano in osservazione prima di essere
dimessi, locali che erano contigui all’uscita.
Inoltre
la posizione dove si trovava ora permetteva, anche se con difficoltà, la
visione delle persone che nei momenti di visita, ora potevano osservare i bimbi
dalle vetrate esterne che giravano tutte intorno al piano.
In
un certo qual senso l’uscita dalla terapia intensiva era anche materialmente
determinata dall’avvicinamento alla porta di separazione fra il reparto
sterilizzato ed il corridoio di ingresso.
Noi
auspicavamo di raggiungere al più presto il nido di osservazione, ma ci
rendevamo conto da soli delle difficoltà e dei tempi lunghi che si
prospettavano.
Poiché
eravamo in Agosto e quindi in tempo di ferie, capitava spesso che quando dottori
ed infermiere salutavano il reparto, si faceva il commento spiritoso sul fatto
che ci si augurava di non rivederci al rientro o di rivederci nel nido, ma nella
realtà abbiamo potuto attendere il rientro di tutti, anche di chi fece le ferie
più estese,per ritrovarci sempre nelle stessa posizione fisica (infatti uscimmo
il 19 ottobre).
Dopo
20 giorni di ventolino in convenzionale, finalmente venne il momento di estubare
Giulia, cioè di togliere il tubo che passando dalla trachea permetteva ai
polmoni di saturare al meglio possibile.
Giulia,
non era ancora completamente liberata dalla respirazione assistita, ma fu un bel
passo avanti. Infatti si passò all’utilizzo delle Cpap, che erano delle
canule che venivano applicate alle narici immettendo ossigeno, ma perlomeno si
limitavano ad un’applicazione esterna e consentivano una più vasta
manovrabilità della bimba, che ora poteva assumere qualsiasi posizione
all’interno della propria culletta.
C’era
solo il problema di riuscire a fissarle nel modo più ottimale e si provò
collegandole ad un cappellino (ma con scarso risultato) per finire con il
classico cerotto utilizzato come fermo.
Queste
cannette, potevano anche essere completamente staccate per alcuni periodi,
tant’è che per la prima volta mia moglie potè finalmente abbracciare sua
figlia e coccolarla per un quarto d’ora.
C’era
sempre la difficoltà e l’intralcio di avere i cavi di monitoraggio collegati,
ma arrivò quel meraviglioso momento in cui la madre può abbracciare la propria
creatura, portata in grembo per nove mesi.
Uno
dei gesti più naturali e spesso simbolo della maternità, il proprio bimbo che
viene adagiato fra le braccia della madre, appena partorito, per noi venne
vissuto esattamente a distanza di 1 mese dalla nascita.
E
su questo avvenimento, ci sarebbero delle cose curiose da raccontare.
Infatti,
una mattina che mia moglie arrivò come di consueto all’ospedale, trovò una
delle infermiere che stava seduta sulla sedia con in grembo Giulia, allorchè
mia moglie si chiese il perché anch’essa non avrebbe potuto fare altrettanto.
Cosa che poi avvenne puntualmente e che si ripetè sempre più frequentemente.
Noi
tendevamo sempre ad essere di minor intralcio possibile alle infermiere, ma non
capimmo mai il perché con alcune era praticamente vietato fare qualsiasi cosa,
mentre con altre si riusciva ad essere più partecipi della situazione.
Passare
un mese intero ad osservare la propria figlia, senza poterla abbracciare non è
proprio una situazione facile da sopportare, ed inoltre mia moglie cominciava ad
avere dei dubbi sul fatto che Giulia la riconoscesse come madre, dato che
passava l’intera giornata insieme a persone diverse.
Dopo
un mese, sebbene ancora sotto gli influssi dei sedativi (sempre più blandi) e
le cure intense somministrate, noi presupponevamo che Giulia cominciasse a
richiedere l’affetto dei genitori e il fatto di non poterla nemmeno
abbracciare ci lasciava sconsolati.
Così
come più avanti, quando la bimba era certamente più attiva e passava mezza
giornata con la mamma, al momento di lasciarla alla sera, quando eravamo
costretti ad abbandonare il reparto, ce ne andavamo sempre con il groppone in
gola, con la sensazione di abbandonarla.
Infatti,
sebbene il reparto fosse sempre presidiato dalle infermiere, il pensiero andava
sempre a Giulia che doveva passare la notte e parte della mattinata successiva,
li da sola nella propria culletta. Ci chiedevamo, ma se si sveglia e cerca la
mamma ? e se si mette a piangere ? chi la tranquillizza ? e via dicendo.
Perché,
le infermiere, anche quelle più sensibili, spesso erano impegnate nella normale
assistenza ai bimbi e quindi ci potevamo aspettare che se la bimba ad esempio
piangeva o si lamentava, fosse lasciata senza consolazione.
Infatti,
alcuni allarmi ci pervennero sempre più chiari, perché quando arrivava mia
moglie alla mattina, spesso le infermiere la riprendevano per essere arrivata
troppo tardi, sottointendendo che la bambina richiedeva attenzioni e in mancanza
della madre erano costrette ad assisterla.
Essendo
sempre più sveglia e diventando grandicella, Giulia cominciava a mal sopportare
il fatto di essere costretta nel lettino e certamente le infermiere non avevano
tempo di prenderla in braccio o farla giochicchiare come quando arrivava la
mamma.
Inoltre
dopo il primo mese, io avevo ripreso il lavoro e mia moglie non poteva certo
arrivare in ospedale per l’apertura della terapia intensiva (h.9,00), poiché
prima provvedeva ad accompagnare il fratellino all’asilo e poi doveva
raggiungere l’ospedale attraverso le strade intasate dai pendolari che la
mattina si recano al lavoro.
Insomma
c’era anche l’apprensione per non arrivare presto all’Ospedale, e di non
lasciare troppo tempo da sola Giulia. Una volta mia moglie mi raccontò che
arrivando una mattina, trovò Giulia che dormiva nel suo lettino pieno di
vomito. Si era riaddormentata e l’avevano lasciata li così come era.
Sebbene
il decorso di Giulia stava proseguendo con progressione costante, senza gravi
criticità, capitarono anche dei momenti di particolare allarme dove la bimba
accusava delle crisi passeggere che ovviamente ci buttavano nel panico.
Possiamo
parlare solo di quelle che abbiamo potuto assistere di persona durante il
giorno.
In
particolare accaddero nel secondo mese, quando Giulia non aveva più i
respiratori collegati, in cui, il computer dove era collegata, si metteva a
suonare all’impazzata.
Le
cause erano determinate in genere dai valori del cuore con battiti sempre in
genere molto elevati con alcuni momenti che pensavamo che non potesse reggere
agli sforzi, ma i momenti peggiori erano quando aveva delle crisi respiratorie,
dove i valori del computer scendevano ai livelli minimi che richiedevano
l’intervento tempestivo delle infermiere e dottori con la respirazione
assistita.
Giulia
assumeva delle colorazioni veramente allarmanti e noi ci chiedevamo come avremmo
potuto mai portarla a casa in quelle condizioni.
Ovviamente
quelle giornate erano vissute con particolare apprensione e si faticava ancor di
più a tornarsene a casa la sera. E una volta a casa si chiamava l’ospedale
per avere rassicurazioni che in genere pervenivano, ma una volta ci dissero che
per fare superare la crisi a Giulia dovettero reintubarla in trachea, buttandoci
letteralmente nel panico.
Poi
invece all’indomani mattina al nostro rientro in ospedale trovammo Giulia di
nuovo senza il tubo di respirazione.
Quel
giorno in cui venne reintubata, passato quel momento critico che ci aveva
mandato in depressione, Giulia ebbe una forte ripresa e cominciò un deciso
miglioramento.
L’allattamento
L’allattamento
fu anch’esso una causa di stress per mia moglie.
Infatti,
già era reduce da una pessima esperienza con il primo figlio, un po’ per
mancanza di latte e un po’ perché era un lazzarone lui stesso, che dovemmo
addirittura ricoverarlo in Ospedale dopo la prima settimana che eravano a casa e
si lamentava in continuazione.
Poi
capimmo che si lamentava perché non riusciva a mangiare a sufficienza. Infatti,
il latte pareva uscire dal seno, ma praticamente finiva immediatamente e lui non
trovandone a sufficienza di arrabbiava. Ma questo lo capimmo una volta
ricoverati.
Quindi,
già partivamo male, anche se per questa gravidanza mia moglie si sentiva più
impostata con il latte, solo che l’impossibilità di allattare la bimba per
oltre un mese mandò tutto all’aria.
In
ospedale ci dissero comuque di proseguire nel tirare il latte e di metterlo da
parte in frigo che al momento opportuno si sarebbe utilizzato per i primi pasti
di Giulia (sempre che non si andava troppo lontano nel tempo).
Ma
le condizioni non proprio ottimali, fecero pian piano scomparire tutto il latte.
Dopo le prime settimane di tiraggio a mia moglie non venne più latte.
Mi
ricordo che nelle giornate migliori mia moglie riusciva a malapena a riempire il
barattolino da 100 grammi, ma in genere si stava sulla metà del barattolino,
quando altre mamme ne riempivano 3 di barattolini e più volte al giorno.
I
problemi maggiori li abbiamo incontrati quando si cominciò ad allattare Giulia.
Un
bel giorno (dopo più di 1 mese dalla nascita) i dottori decisero che si poteva
iniziare a nutrire Giulia anche attraverso il latte e non solo via flebo.
Si
cominciò con microdosi di pochissimi grammi (la prima volta non superarono i 5
grammi), anche perché prima di tutto bisognava vedere come reagivano tutti gli
organi sottoposti all’operazione iniziale.
Da
subito capimmo che il problema non sarebbe stato di poco conto, innanzitutto
perché a distanza di 1 mese bisogna
far capire alla bimba come deve succhiare.
Inoltre
doveva anche imparare a distribuire la respirazione contestualmente alla
ciucciuata.
Insomma
una cosa che è normale per qualsiasi bimbo, per Giulia era un’attività
difficilissima, correndo il rischio che alla prima poppata si soffocasse.
L’obbiettivo
prefissato era che bisognava allattare sempre più di frequente Giulia, poche
quantità, ma più frequenti in modo che prendesse confidenza con l’attività,
e soprattutto bisognava limitare l’afflusso di latte che non doveva scendere
in modo corposo ma a quantità veramente minime.
Fatto
sta che questa operazione di allattamento diventava molto lunga e ci voleva
molta pazienza da parte delle infermiere (Giulia era ancora in condizioni da non
potersi muovere facilmente dalla culla).
Bisognava
anche riuscire all’interno della giornata a completare il fabbisogno minimo
per la crescita.
Per
tutti i motivi espressi sopra si passò all’utilizzo del sondino, che viene
inserito dal naso, facendolo scendere fino allo stomaco, sondino che è
attaccato ad una siringa, tipo flebo, piena di latte, e collegata ad una
macchina che a velocità minima faceva scendere il latte stesso. Le prime
poppate (meccaniche) di 30/40 grammi potevano anche durare 1 ora.
Facendo
così l’infermiera doveva solo preoccuparsi di attaccare la siringa, ma
ovviamente Giulia non imparava a mangiare da sola.
Del
problema dell’alimentazione non ce ne avevano mai parlato prima del parto, ma
una delle caratteristiche dell’ernia diaframmatica è proprio l’impossibilità
a nutrirsi in modo costante.
Nei
primi mesi, quest’attività di succhiare che come ben si conosce è una delle
attività primarie nei neonati e come si usa dire è una cosa innata e nella
natura degli esseri umani, per questi bimbi (almeno certamente per la nostra)
diventa di una difficoltà estrema.
Al
tutto si aggiungeva il ricorrente vomito che Giulia aveva durante
l’allattamento.
Quasi
mai si riusciva a terminare il pasto previsto perché immancabilmente la bimba
vomitava o dava chiari segnali in tal senso.
Il
problema dell’alimentazione è un incubo che ancora oggi ci portiamo dietro.
In
ospedale la bimba veniva pesata tutti i giorni per verificarne il peso perché
la situazione era sempre molto critica.
Una
delle cose curiose, fu che al momento delle dimissioni, con Giulia che mangiava
essenzialmente dal sondino, la dottoressa ci formulò la seguente dieta:
4
pasti al giorno per 150 grammi di latte per un totale di 600 grammi.
Erano
3 mesi che tutti i giorni combattevamo con l’impossibilità di farla mangiare
e ci consegnano una dieta, come se il riferimento fosse un bimbo senza i
problemi di Giulia.
Innanzitutto
mia moglie fu addestrata a calare il sondino nasograstico in modo da poterla
allattare come si faceva all’ospedale, e così speranzosi ce ne andammo a
casa, anche perché non se ne poteva più dell’ospedale.
Solo
che a casa la situazione fu da subito ingestibile, Giulia il sondino non lo
sopportava affatto, anche perché, non facendo più uso di sedativi la bimba era
molto più attiva e non gradiva proprio il tubo nel naso e qualora mi moglie
riusciva nell’opera di infilarglielo, immediatamente lei se lo strappava.
Solamente
di notte, mentre la bimba dormiva,si poteva calare il sondino e nutrirla piano
piano mettendo il latte nella siringa. Riuscimmo a farlo solo nella prima
settimana svegliandoci a metà notte per effettuare l’operazione che durava 40
minuti, dandoci il cambio a tenere sollevato la siringa ed osservando che il
latte scendeva piano piano.
Capimmo
quindi che l’unica strada da percorrere era di insistere nell’allattamento
tradizionale con il biberon, solo che anziché 4 pasti ne facevamo anche 10.
Tenevamo
conto di ogni poppata e dei grammi ingeriti al fine di arrivare alla fine della
giornata con il totale dei grammi mangiati.
Abbiamo
un quadernone dove segnamo tutto quello che succedeva nella giornata,
soprattutto le poppate, ma anche i medicinali da prendere e abbiamo segnato
tutto fino al compimento del primo anno, dove abbiamo sostituito il quadernone e
abbiamo anche diminuito le osservazioni da memorizzare.
Consultando
il quadernone, nei primi giorni dopo le dimissioni, Giulia faticava a superare i
400 grammi di latte (considerate le 8/9/10 poppate) e fino all’anno le volte
che si superavano i 600 grammi erano accolte con delle feste tanto erano rare.
Ancora
oggi a quasi 2 anni, dove manteniamo 3 poppate al giorno, Giulia non riesce a
finire il suo biberoncino di 150 grammi, ma quasi sempre lascia pochi grammi di
latte.
In
generale il problema dell’alimentazione è una delle criticità più forti per
noi con cui combattiamo tutti i giorni, e anche nelle giornate ottimali, è
sempre dura raggiungere le quantità minime, e se da una parte Giulia gradisce
molte pietanze (molte di più ad esempio del fratello maggiore) il problema è
sempre nelle quantità ridotte che assume.
Questo
ovviamente quando sta bene, perché basta nulla per fargli passare
l’appettito.
Quando
si ammala i pasti saltati non si contano.
Nella
seconda parte della degenza, dopo un mese e mezzo di ubicazione nell’area
dedicata alle cure intensive, ci
siamo trasferiti nelle stanze dedicate ai nidi e all’osservazione dei bimbi
meno gravi o in via di dimissioni, stanze sempre all’interno del reparto di
teparia intensiva neonatale.
Ci
stavamo avvicinando quindi all’uscita dal reparto, anche se il periodo di
osservazione fu lungo più di un mese.
I
problemi da monitorare erano essenzialmente quelli relativi all’alimentazione
già descritti, e quelli di respirazione legati all’evoluzione della
situazione polmonare.
Finalmente
tutti i macchinari erano scollegati,a esclusione del saturimetro, una
macchinetta specifica dotata di un lungo filo, diversamente da quelli del
computer centrale fino a prima collegato. Avere
questo filo molto lungo ci permetteva di gestire con più agilità Giulia e di
spostarci all’interno della stanza anche di qualche passo.
Si
facevano in pratica delle piccole passeggiate con Giulia in braccio e ci si
poteva quindi anche avvicinare meglio alle vetrate dove i parenti e amici
potevano vederla meglio.
Anche
la situazione dei medicinali in uso, era fortemente diminuita e le lastre erano
fatte solo se indispensabili.
Bisognava
fare in modo che la bimba prendesse un peso sufficiente e che si rendesse
autonoma con la respirazione, prima di deciderne le dimissioni.
Noi
genitori, sebbene i momenti più delicati fossero passati, anche in questa
seconda fase non eravamo molto tranquilli, primo perché non avendo delle
scadenze prefissate non sapevamo comunque quando saremmo potuti uscire, poi i
continui viaggi da casa all’ospedale cominciavano a pesare, e la sera lasciare
Giulia da sola e sempre più attiva ci lacerava.
Alla
fine arrivò anche l’ultima settimana, dove i dottori ci preannunciarono che
ogni giorno poteva essere quello buono per le dimissioni.
La
bimba aveva progredito a sufficienza e seppur con grande fatica, si stavano
raggiungendo i 4 kg di peso che era il limite minino che si erano imposti.
In
pratica a 3 mesi Giulia raggiunse lo stesso peso del ns. primo figlio (3,840
alla nascita).
Si
rendevano necessari gli ultimi controlli e se gli stessi avessero dato gli esiti
previsti potevamo andarcene a casa.
Gli
esami che dovemmo sostenere furono dei prelievi, delle visite specialistiche e
una risonanza cerebrale. Noi
pensavamo che tutti fossero dei controlli di rito, invece nel parlarne con i
dottori, veniamo a sapere che la risonanza è richiesta per il monitoraggio del
liquido cerebrale in eccesso, già precedentemente riscontrato nelle ecografie.
Ci
dissero che il liquido in eccesso riscontrato sembrava in riassorbimento e la
risonanza doveva confermarne questa tendenza.
Non
ne sapevamo proprio nulla e ciò ci spaventò non poco, perché si sa quali
danni possa fare una situazione del genere sullo sviluppo successivo della
bimba.
I
risultati degli esami, sebbene non fossero dei migliori, ci diedero il via
libera alla dimissione, in particolare la risonanza confermò un leggero
quantitativo di liquido in eccesso ma i dottori ci tranquillizzarono dicendo non
vi erano immediate preoccupazioni.
Ma
noi tranquilli proprio non lo eravamo.
Finalmente
a Casa
Finalmente
il giorno 18 Ottobre 2005, 79 giorni dopo la nascita, abbiamo il via libera per
andare a casa.
Anche
se non proprio tutto è a posto, i medici ed anche noi, siamo convinti che la
bimba in un ambiente più tranquillo come quello di casa, avrebbe agevolato di
una ripresa più rapida.
Ovviamente
Giulia era in condizioni di procedere autonomamente, ma ancora erano necessari
alcuni nostri presidi.
A
casa ci siamo attrezzati di Saturimetro, gentilmente datoci in presito
dall’unità TIN dell’ospedale per verificare che la respirazione e il cuore
rimanessero nei livelli di guardia.
Poi
abbiamo avuto necessità di munirci di ossigeno, con un bombolone fornitoci
dall’Asl e prontamente ricaricato ad ogni esaurimento.
Abbiamo
recuperato anche i Sondini e le siringhe giganti (schizzettoni) per il
nutrimento dal naso.
Infine
alcuni medicinali da dare in modo ricorrente a Giulia.
Insomma
non era proprio una cosa leggera, ma un’assistenza 24 ore su 24 che solo al
pensiero mi venivano i brividi.
Ma
in qualche modo ce la si fece, e a parte i problemi di alimentazione, bisogna
dire che l’ambiente familiare con il fratellino e i parenti aiutarono la bimba
che probabilmente moralmente ne giovò rispetto alle restrizioni
dell’ospedale.
Una
volta a casa si cominciò le visite dal pediatra, all’Asl, al Pronto Soccorso
e così via.
Nel
primo anno, una settimana senza passare da uno di loro, non me la ricordo
proprio.
Quando
ritorniamo all’ospedale per le visite varie, non manchiamo mai di andare in
terapia intesiva a salutare i dottori e le infermiere e in uno dei primi
ritorni, mentre gli dicevamo quanto era duro accudire Giulia, un’infermiera ci
disse che prima di lasciare ai genitori dei bimbi in queste condizioni
valutavano bene quanto i genitori stessi potevano risultare affidabili nel
proseguimento delle cure a casa propria, e nel nostro caso valutarono che le
dimissioni potevano essere rilasciate. Certamente l’affidabilità non fu
determinata dalle mie prestazioni ma dall’affidamento in mia moglie.
Inoltre
c’è un aneddoto riferito da un’infermiera, che alcune di loro con il
primario avevano scommesso, che entro la prima settimana saremmo ritornati
all’ospedale per ricoverare Giulia, cosa che in effetti non avvenne.
Il
ricovero avvenne solo successivamente, ma per problemi indipendenti dalla ns.
volontà.
Il
2 Agosto nacque.
A
3 mesi venne a casa.
A
4 ½ ricovero per bronchiolite (1
settimana).
A
11 mesi rioperata per intestino e rierniatura dello stomaco.
Ora
nel momento che sto scrivendo questo documento a quasi 22 mesi siamo reduci da
un inzio di broncopolmonite curata con delle punturone che ci hanno evitato
l’Ospedale.
Curiosità
Concludo il racconto citando 2 situazioni che se vogliamo sono anche divertenti.
IL
SATURIMETRO
IL
SANTO PROTETTORE
IL
SATURIMETRO
Al
momento delle dimissioni, ci hanno dato a prestito gratuito uno dei saturimetri
che l’ospedale (in particolare l’associazione Voglia di Vivere) mette a
disposizione.
Il
saturimetro era necessario perché ancora Giulia faticava molto nella
respirazione e qualora ne
necessitasse, bisognava fornirle dell’ossigeno.
Esso
è grande quanto un videoregistratore, e collegato con degli elettrodi alla
bimba, ne permette il monitoraggio della respirazione e del battito del cuore.
Deve
essere preimpostato con livelli d’allarme e collegato alla corrente per essere
messo in funzione.
Nei
3 mesi passati in ospedale abbiamo visto come le inferiere collegavano
l’elettrodo, e in genere avveniva sul palmo alla mano o al collo del piede di
Giulia e cosi facemmo anche noi a casa.
Solo
che a casa, oltre alla preoccupazione di controllare Giulia, eravamo assillati
anche dall’aggeggio elettronico che per qualsisi motivo si metteva a suonare.
Infatti
anche impostando il livello al minimo consentito, solo con lo spostamento della
bimba e anche per fatti propri, si metteva a suonare.
Creandoci
confusione, sul fatto che suonasse per effettiva necessità di ossigeno oppure
perché andava fuori giri. Ci adattammo all’uso visivo di Giulia, nel senso
che se la vedevamo affaticarsi, gli avvicinavamo l’ossigeno.
La
macchina infatti appena non vengono rispettati i limiti impostati si mette a
suonare, allora si agisce sul pulsante e si ferma per 1 minuto, ma se il livello
non si ripristina ricomincia immediatamente a suonare. Inoltre avendo ricevuto
dall’Ospedale un elettrodo solo, usurandosi, probabilmente aumentava i
problemi di connessione.
Aggiungiamo
anche che la bimba stessa movendosi di continuo generava allarmi incontrollati
per la macchinetta.
Insomma
abbiamo passato 2 mesi con il saturimetro che suonava all’impazzata. Si
interveniva sul pulsante anche 20/30 volte a notte, con mia moglie che più
volte voleva buttarlo dalla finestra e spesso lo staccavamo direttamente da
Giulia.
Poi
quando ritornammo all’Ospedale a Dicembre per la bronchiolite con il ricovero
di una settimana, colsi l’occasione di andare in terapia intensiva a chiedere
un nuovo elettrodo (perché fuori non si trovavano) e me ne diedero uno nuovo
confezionato.
Sulla
confezione c’erano dei disegni sul come utilizzarlo, dove si notava che per i
bimbi più grandicelli, si poteva collegarlo esclusivamente su di un singolo
dito e non sulla mano e il piede intero e da quel momento dormimmo più
tranquillamente.
IL
SANTO PROTETTORE
Quando
abbiamo dai primi esami abbiamo saputo delle difficoltà che c’erano da
affrontare alla nascita di Giulia e iniziò a divulgarsi la notizia fra parenti,
amici e colleghi, ognuno di loro provvide a fornirci santi protettori e
riferimenti a cui affidare le ns. preghiere.
Noi
che non avevamo dei riferimenti precisi, se non quelli classici che mi porto
dietro dalla nascita che sono la Madonna (essendo nato l’8 dicembre) e Papa
Giovanni (da cui ho preso il nome), ci affidammo essenzialmente al primo santo
fornitoci, la cui immagine mi fu consegnata da delle mie colleghe di ufficio.
Il
santo era San Riccardo Pampuri, di cui fino al quel momento non avevo mai
sentito parlare. Mi dissero che è un santo giovane (infatti nasce nei primi del
1900), il cui Santuario è anche non lontano da casa nostra (verso Pavia a 60km
da casa).
Insomma
ci affidammo a lui e andammo anche al Santuario, prima e dopo la nascita.
La
sorpresa ci fu entrando per la prima volta nella cappellina dell’ospedale
Buzzi, posta nel seminterrato, luogo dove mi recavo di continuo, soprattutto i
primi giorni in attesa degli eventi e dell’operazione.
Nella
cappellina trova ovviamente la Madonna (non manca mai), ma anche uno spazio
dedicato a Papa Giovanni, quindi le mie 2 figure di riferimento classica, ma uno
grosso spazio, proprio a fianco dell’altare è dedicato a San Riccado Pampuri,
con foto e la sua storia. Infatti egli oltre a dedicarsi alle cure dei malati e
quindi avere attinenza con un ospedale, ebbe la caretteristica che morì proprio
nella casa sita nella via di fronte all’Ospedale, trascorrrendo l’ultimo
periodo di vita nell’abitazione del fratello.
Ciò
ovviamente mi fece molto piacere, ma ciò che mi colpì, fu che leggendo la
storia del Santo notai che era nato il giorno 2 Agosto, proprio lo stesso giorno
di Giulia.
Lo
presi come un buon auspicio e i primi giorni ci piansi su ogni volta che mi
recavo alla cappellina.
Finale
Sono
arrivato alla fine, certamente trascurando molte cose, ma tentando di descrivere
questa prima parte della vita di Giulia, una bambina sfortunata o forse molto
fortunata, dipende dal punto d’osservazione.
Una
bimba che ha trascinato tutta la sua famiglia nel vortice dei sentimenti che si
sono scatenati di fronte ad un’esperienza del genere.
Spesso
si sente in giro, in televisione o sui giornali, di persone che si lanciano in
avventure spericolate, quali andare nello spazio o buttarsi da un ponte con una
corda o ancora combattere in prima linea o certuni che si vantano di avere fatto
il giro del mondo in canoa;
ecco,
mi sembra con Giulia di partecipare ad un evento spericolato sul filo del
rasoio, dove un giorno non è mai tranquillo, quando sta male, ma anche quando
sta bene e pensi se domani starà male, se mangia poco o se mangia più del
solito, se grida la notte o se dorme di filata e ti chiedi se è tutto ok, se fa
troppo caldo o se fa troppo freddo, se fa la cacca o se non la fa…… insomma
per qualsiasi cosa che per un bimbo è normale, per lei è un’apprensione.
A
guardare bene, buttarsi dal ponte o fare il presidente del consiglio, mi
sembrano quasi cose ridicole al confronto.
Colgo
l’occasione di portare la mia solidalietà a tutti, genitori e medici e
persone qualsiasi che in situazioni del genere ci aiutano ad affrontare al
meglio la vita dei ns. figli, persone che dovrebbero essere riconosciute per
quello che fanno, invece a volte nel ns. paese preferiscono premiare i vari
Vasco Rossi o Valentino Rossi con lauree ad honorem oppure onoreficenze a
qualche pirla che vince il campionato del mondo (detto da me che sono un tifoso
sfegatato).
Un
saluto a tutti quelli che sono riusciti a leggersi la storia fino alla fine.
Giulia e Papà