Una Madre racconta
Questo testo che segue è stato fornito dalla Dottoressa Aite che potete contattare nella pagina "I nostri Esperti", collabora con questo sito per gli aspetti di carattere psicologico.
La diagnosi prenatale di
anomalia congenita:
“Una madre racconta”
La
diagnosi prenatale di una grave malformazione congenita si configura per le
coppie e in particolare per le madri
come un momento di grave crisi. Trovano conferma le fantasie di generare un
figlio non sano e i timori di inadeguatezza e di fallimento, riportati dagli
autori come normali in gravidanza. La madre è obbligata a confrontarsi con la
perdita del bambino atteso e immaginato fino ad allora e con la ferita
narcisistica che ne deriva.
Nella
scarsa letteratura esistente su tale problematica, rilevante ci è parso il
contributo di Drotar. Secondo l’autore, il processo di adattamento che i
genitori affrontano a partire dalla diagnosi va dallo shock iniziale fino alla
riorganizzazione, passando attraverso la negazione, la rabbia, il dolore e
l’adattamento alla realtà.
Attraverso la “storia” personale narrata da una madre ci proponiamo di osservare come si caratterizza in questa donna il processo di adattamento alla diagnosi prenatale di anomalia congenita.
Situazione clinica
La
coppia in attesa del primo figlio giunse alla nostra osservazione alla 23°
settimana di gravidanza da un’altra regione d’Italia su invio del ginecologo
curante, che una settimana prima aveva diagnosticato nel feto un’ernia
diaframmatica sinistra.
A
partire dalla comunicazione della diagnosi la mamma è stata seguita dall’équipe
lungo tutta la gravidanza fino all’intervento chirurgico e alla dimissione
dall’ospedale.
1. Durante la gravidanza
Al
termine dell’ecografia che confermava la
diagnosi già ricevuta, questi sono
i vissuti riportati dalla madre: “L’unica cosa che ricordavo, dopo il primo
colloquio con il chirurgo neonatale, era che mio figlio aveva solo il 60% di
possibilità di sopravvivere. Le altre parole del dottore le ascoltai, ma
le incamerai solo in parte, era
come se non ci potessi riflettere. Il terrore mi faceva abbandonare il pensiero
e non fui capace di fare nemmeno una domanda. Perché Dio mi metteva di fronte a
un’esperienza del genere? Ero arrabbiata. Che avevamo fatto io e mio marito
per vedere distrutto il nostro desiderio di mettere al mondo un figlio? Anche se
i medici mi avevano detto che non dipendeva da me,
mi sentivo in colpa, lui era dentro di me, ero io che lo stavo facendo
crescere ed ero quindi io che l’avevo fatto malato. Visto che l’assenza di
una risposta al perché mio figlio stesse male, a tratti diventava
intollerabile, preferivo pensare che
non era vero, che si erano sbagliati. Mi ripetevo che alla nascita mi avrebbero
detto che stava bene. Ho comprato
poche cose per mio figlio in
gravidanza e quando mi capitava di riordinarle pensavo che forse non le avrebbe
mai indossate, questa era la mia paura costante. Si, in alcuni momenti pensavo
alla morte di mio figlio e, come
dire, non c’era la paura ma ero io stessa la paura” .
2.
Dopo la nascita
Alla nascita, come previsto e concordato con i genitori, il bambino è stato trasferito d’urgenza nel reparto di terapia intensiva del Bambino Gesù e, a motivo delle sue gravi condizioni respiratorie, è stato intubato e sedato per prepararlo all’intervento chirurgico.
Ecco le osservazioni della madre quando descrive il suo primo incontro con il figlio in terapia intensiva, a cinque giorni dal parto: “Quando mi avvicinai a lui, il mio primo pensiero fu: questo non è mio figlio, avevo solo voglia di scappare. Non avevo il coraggio di toccarlo, temevo di potergli fare del male. Anche nei giorni seguenti, quando stavo accanto all’incubatrice, mi dicevo: che ci faccio io qui? ma questo è veramente mio figlio? In quei giorni la paura era costante e l’interrogativo sempre presente, che mi occupava la testa, era: vivrà?, respirerà mai da solo? Andavo da lui ogni giorno ma non lo sentivo ancora mio, c’era ancora distanza tra noi. Mi dicevo: forse sono diventata pazza, come è possibile che non lo sento ancora mio, è una cosa così innaturale!”
Quando,
a un mese di vita, il bambino viene
finalmente estubato e trasferito in chirurgia neonatale, la madre può
sperimentare il contatto con un bambino più vitale e reattivo. Ecco i suoi
commenti: “Adesso mio figlio respira da solo, ha due mesi di vita ma io
continuo ad avere paura. Questa paura crea uno spazio tra noi, non mi sento
libera di esprimermi e avere un
contatto intimo con lui. E’ stato lui, mio figlio, con il suo sguardo e le sue
smorfie a rassicurarmi, a dirmi che non soffriva, a farmi capire che la paura
era solo mia. Ieri, mentre lo tenevo in braccio, mi sono accorta senza ombra di
dubbio che mio figlio reagisce ai miei stati d’animo. Alle volte mi nasce una
grande rabbia, non accetto
che mio figlio sia malato, che rischi la vita e torno a
domandarmi il perché di tutto questo. Alle volte invece, mentre sto
accanto a lui e mi accorgo che soffre o che è spaventato, mi sento in colpa e
responsabile di tutto il dolore che deve sopportare.”
Pochi
giorni prima delle dimissioni la madre nel concludere la sua narrazione afferma:
“ Ormai non mi chiedo più il perché delle cose, ho scoperto che posso solo
accettare la realtà, che non c’è altra risposta.
All’inizio non era mio, ora è mio”.
Discussione
Nel
modello proposto da Drotar la prima reazione emotiva che i genitori sperimentano
a seguito della comunicazione della diagnosi è lo shock, che chiaramente
traspare anche nelle parole di
questa madre: “ Il terrore mi faceva abbandonare il pensiero e non fui capace
di fare nemmeno una domanda delle mille. L’unica cosa che ricordavo al termine
del primo colloquio era che mio figlio aveva solo il 60% di sopravvivere”.
E’ evidente come, l’ansia attivata dalla diagnosi, venga a configurare uno
stato psichico in cui l’acquisizione delle informazioni è inevitabilmente
ridotta.
Lo
stato di shock della madre traspare chiaramente durante il primo colloquio con
l’équipe anche dal comportamento
non verbale. “Il suo sguardo durante
il colloquio solo a tratti si posa sul chirurgo e sulla psicologa, ascolta,
annuisce ma non fa domande. Osserva silenziosa il disegno che il medico fa della
malformazione e appena termina il colloquio, esce velocemente dalla stanza come
volesse scappar via, non solo dalla stanza ma anche dagli operatori, dalle loro
parole e quindi dalla realtà con cui
è dovuta entrare a contatto, suo
malgrado”.
Come
ha evidenziato anche Drotar nella sua ricerca, già al termine del primo
colloquio compare la negazione, ossia il primo estremo tentativo di allontanare
e negare la realtà della malformazione: “Per tutta la gravidanza fino al
parto mi dicevo che non era vero, che si erano sbagliati”.
Inizialmente
la madre nega la gravità della situazione e sembra affidarsi al pensiero
magico che tutto possa improvvisamente
risolversi. Anche in seguito, durante
la gravidanza, usa il diniego della realtà ogni qualvolta emerge in lei
prepotente il pensiero che suo figlio possa morire: “ Mi ripetevo che alla
nascita mi avrebbero detto che stava bene”. Ma naturalmente, al di là del
diniego, l’emozione più intensa e profonda che accompagna questa madre per
tutta la gravidanza è la paura della perdita del figlio.
Ed
è proprio questa paura della morte
che, come riportato da Drotar, rende in genere le madri riluttanti a stabilire
un legame affettivo con il proprio
figlio.
Questa
madre evita consapevolmente l’unione fusionale con il feto: le fantasie sul
figlio sono limitate e attende con ansia e paura che il periodo della gestazione
si concluda il più rapidamente possibile. Non solo il bambino immaginato e
atteso fino al momento della diagnosi scompare ma diventa estremamente difficile
pensare e fantasticare un bambino “malato” che nasce e che poi forse muore.
La
creazione di uno “spazio potenziale”, inteso come area intermedia tra
fantasia e realtà,
in cui la madre può provare a sviluppare la relazione con il figlio, è
messa a rischio dal dato di realtà schiacciante della diagnosi.
Anche
la rabbia e il senso di colpa, descritti da Drotar nel suo campione, sono
presenti e vengono riportati dalla
madre come particolarmente intensi subito dopo la diagnosi
e ogniqualvolta torna a
chiedersi il perché di questa esperienza: “Ero arrabbiata. Perché Dio mi
metteva di fronte a un’esperienza del genere?”.
In
gravidanza vi è un alternarsi
continuo di emozioni e stati d’animo diversi e l’unica forma di difesa
elaborata da questa madre è il “fare finta”, il comportarsi come se non
fosse vero per non essere sopraffatta dall’angoscia, dalla delusione e dalla
rabbia.
Non osserviamo nella fase prenatale l’adattamento alla realtà descritto da Drotar, inteso come un venire a patti, un prendere contatto con la realtà di un figlio malato e in pericolo e con se stessa, come genitore di un bambino portatore di un problema.
Questa
madre immediatamente dopo il parto rivive
le emozioni già sperimentate in gravidanza, rivelando una continuità
nel modo di rapportarsi al figlio tra la fase prenatale e quella post-natale. Al
momento del primo incontro con il figlio, a cinque giorni dal parto, ricompare
infatti la negazione come meccanismo difensivo di distanziamento tra sé e il
bambino: “Quando mi avvicinai a lui, il mio primo pensiero fu: questo non è
mio figlio. Avevo solo voglia di
scappare.”
Dopo
l’operazione chirurgica anche la paura riemerge in primo piano. Di fronte
all’incubatrice del figlio intubato e sedato la madre riferisce questi
vissuti: “La paura era costante e l’interrogativo sempre presente che mi
occupava la testa, era: vivrà?, respirerà mai da solo?”
Nei
primi giorni, come emerge dalle osservazioni della psicologa: “la paura della
madre appare chiaramente nei suoi occhi spalancati, nel suo guardare a distanza
il figlio senza osare toccarlo, se non per qualche secondo con la punta delle
dita. Lo sguardo non può sostare a lungo sul figlio ma si sposta in
continuazione dal bambino ai monitors che lo circondano. C’è un profondo
silenzio tra loro due, le parole non
possono essere ancora usate dalla madre per entrare in
contatto con il figlio: “quando stavo accanto all’incubatrice, mi
dicevo: che ci faccio io qui?”.
Questo
distanziamento affettivo, in parte collegabile al mancato riconoscimento del
bambino che ha di fronte come proprio
figlio, è presente anche nella narrazione della madre: “Andavo da lui ogni
giorno ma non lo sentivo ancora mio, c’era ancora distanza tra noi”.
Questa
difficoltà iniziale di riconoscimento del proprio figlio intubato, inerte,
incapace di qualsiasi risposta, la si
osserva frequentemente ed è in genere vissuta e riportata nelle storie narrate
dalle madri, come particolarmente dolorosa e perturbante. In particolare questa
madre appare molto spaventata
dalla sua reazione e si domanda se è pazza, visto che non riesce a riconoscere
il proprio figlio: “ Mi dicevo: forse sono diventata pazza, come è possibile
che non lo sento ancora mio, è una cosa così innaturale!”
Solo
successivamente, con l’avviarsi della relazione con il bambino, compaiono
l’adattamento e
Infatti
solo dopo due settimane passate in terapia intensiva, quando il bambino, sebbene
ancora intubato, comincia ad accennare qualche movimento e
riesce ad aprire gli occhi per più di qualche istante, inizia
gradualmente a esserci un contatto reale, più ravvicinato e intimo. La madre può
finalmente riconoscerlo come suo e come realmente esistente perché si sente
riconosciuta dal figlio che la guarda e le stringe il dito
A
partire da questo momento si osserva nella madre un graduale processo di
riconoscimento e accettazione del figlio malato, anche se l’acquisizione che
il bambino può guarire e che la morte e il dolore non sono più compagni di
strada, avviene lentamente.
Sono
presenti anche la rabbia e il senso di colpa già sperimentati in gravidanza:
“Alle volte mi nasce una gran rabbia, non
accetto che mio figlio sia malato,
che rischi la vita e torno a domandarmi
il perché di tutto questo. Alle volte invece, mentre sto accanto a lui e mi
accorgo che soffre o che è spaventato, mi sento in colpa, responsabile di tutto
il dolore che deve sopportare.”
Anche
la paura permane sullo sfondo ma piano piano la
relazione si stabilisce sempre più intensa e comincia a esserci lo
spazio per un dialogo e un ascolto reciproco.
Solo
al termine della degenza comincia a rivelarsi in questa madre la possibilità di
accettare la realtà: “Non mi chiedo più il perché, ho scoperto che posso
solo accettare la realtà, che non c’è altra risposta”.
Conclusioni
La
comunicazione della diagnosi in gravidanza si mostra come un doloroso momento di
disequilibrio psichico per la madre: allo
shock iniziale seguono la negazione, il diniego, la rabbia e il senso di colpa,
tutti tinti dall’affetto dominante della paura. La capacità di questa madre
di stare in rapporto con il figlio, di pensarlo e immaginarlo appare in parte
compromessa. Soltanto il contatto diretto con il bambino apre uno spazio
mentale, affettivo e fisico di riconoscimento e di relazione con il bambino, che
la madre ha espresso sinteticamente
con queste parole: “Non era mio, ora è mio”. E’ inoltre significativo
sottolineare che nelle prime
settimane di vita, quando il rischio di morte del bambino era ancora elevato e
la sedazione impediva ogni possibilità di reciprocità,
si sono riproposte nella madre le medesime emozioni sperimentate in
gravidanza.
A
differenza di quanto riportato da Drotar, la narrazione di questa madre
indica che, quando la diagnosi di anomalia congenita viene posta in
gravidanza, il processo di adattamento materno
può non giungere alla fase di adattamento e riorganizzazione prima della
nascita del figlio. E’ solo il contatto con
il bambino sempre più vitale e reattivo a stimolare l’attaccamento materno
così come ad attivare una possibilità di adattamento
alla realtà.